Vita di contrada ieri e oggi. E domani?

Fra cent’anni, probabilmente, i testi di Tambus saranno studiati dagli etnologi e dagli antropologi.

Strade popolate da branchi di chiassosi cittini; usci di casa aperti con gente che va e che viene; cicaleggio e pettegolezzi dalle finestre; botteghe di artigiani operose e rumorose; mogli esasperate che mandano i figlioli a raccattare i mariti all’osteria dove ciondolano mezzi briachi; strategie di Palio che si intrecciano nell’ombra dei portoni; tutti che conoscono tutti e tutti che sanno tutto di tutti; tanta miseria e tanta nobiltà d’animo.

Quando Tambus (l’indimenticabile Bruno Tanganelli) le rappresentava così, Siena e la contrada già non erano più queste. Anzi, lui, che in quel tipo di contrada e in quel tipo di vita c’era sempre vissuto, voleva proprio lasciare testimonianza di un piccolo mondo antico nel momento in cui era chiaro che stava sfumando per sempre. In “quella” Siena la vita di Contrada era sinonimo di quotidianità: tutto si svolgeva a contatto di gomito con chi aveva nel cuore l’amore per gli stessi colori. Non c’era bisogno di “creare” momenti di sociabilità attraverso i quali riaffermare e rinsaldare la comune appartenenza: questa era un dato acquisito e automatico. Erano un’altra epoca, un’altra Siena, un’altra contrada, un’altra vita nella e di contrada.

Possiamo (dobbiamo?) provarne nostalgia? Sì, se vogliamo, purché ci si intenda bene su che cosa significa “nostalgia“. Se significa memoria di valori che sono stati di una comunità e che hanno contribuito a formare la mentalità collettiva della comunità stessa, va bene. Se significa vagheggiare un mondo che non c’è più, né più potrà esserci e, di quel mondo, sognare la resurrezione, allora no: saremmo proprio fuori di testa. Anche perché, “quella” Siena e “quella” vita, erano una città e una vita parecchio modeste, in cui la miseria la faceva da padrona (per piacere non venite fuori con la stupidaggine che era bella quella miseria perché era condivisa da tanti. La miseria è miseria ed sempre infame), in cui si viveva in case disagevoli e malsane. “Quella” Siena, per fortuna non esiste più, e di conseguenza, purtroppo, non esiste più nemmeno “quella” Contrada: inevitabile rebound negativo di un fatto positivo.

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Tambus

Il verbo che si usa oggi in riferimento alla Contrada è significativo: la stragrande maggioranza dei contradaioli, oggi, “va” in contrada, mentre solo pochissimi, ormai, “stanno” in contrada. Le ragioni sono note a tutti e sono ragioni che sono iniziate fra gli Cinquanta e gli anni Sessanta del ‘900, con la crisi delle campagne e l’inurbamento che hanno fatto aumentare il numero degli abitanti di Siena; con il benessere che ha spinto ad abbandonare le poco agevoli case del centro storico per andare a vivere nelle più spaziose e comode case della periferia; con la motorizzazione di massa e la chiusura del centro storico che hanno costretto a cercare soluzioni diverse per l’automobile (bene ormai alla portata di tutti). Parallelamente, il boom della terziarizzazione ha trasformato quelle che erano abitazioni in uffici, e il boom dell’Università ha fatto intravedere ai Senesi un lucroso affare nell‘affittare le case del centro agli studenti. Insieme alla scomparsa dei residenti (oggi i Senesi che vivono nel centro storico sono sì e no diecimila) sono scomparsi anche i negozi di quartiere, soppiantati da lussuose vetrine monomarca, uniche a potersi permettere gli affitti che i proprietari dei fondi chiedono agli esercenti (e peraltro: perché, anzi, per chi un piccolo negoziante dovrebbe tenere aperto il suo negozio, quando il target dello shopping nel centro storico è ormai prevalentemente il turista?) e da un’alluvione di pizzerie, pastasciutterie, friggitorie e “cibarie” varie.

Non è un caso che, contemporaneamente a questi fenomeni, ogni Contrada si sia dotata di una società: quella struttura della sociabilità che oggi è il vero collante della comunità contradaiola. Soprattutto in estate (ma anche in occasione di qualche momento particolare) le strade circostanti la società di Contrada si intasano di auto in sosta: le auto di quei senesi che, finito l’evento, risalgono sui loro mezzi per andare a casa loro, lontano, a volte, parecchi chilometri dalle mura.

Il discorso si farebbe lungo; bisognerebbe chiederci se siamo davvero convinti che questo sia il modello vincente. E soprattutto bisognerebbe chiederci che cosa succederà a fronte delle sfide della nostra età: della immigrazione, della multiculturalità. Siena è ormai una città multietnica; meno di altre città, ma non per questo meno investita dal cambiamento. Quale sarà la vita in Contrada in futuro? Come si confronterà la secolare cultura contradaiola con culture diverse e dotate di strutturate caratteristiche loro proprie? Cosa resterà della contrada e del vivere essa e in essa nella Siena multietnica, multilinguistica, multireligiosa e multiculturale fra – poniamo – un secolo? (o anche solo cinquant’anni).

Fra cent’anni, probabilmente, i testi di Tambus saranno studiati dagli etnologi e dagli antropologi per capire come si autorappresentavano i Senesi e i contradaioli prima della grande trasformazione che precedette una trasformazione di ancor più vaste dimensioni. Già oggi canticchiare “bella meravigliosa la mia città” ha un senso diverso da quello di chi avesse cantato una canzone simile settant’anni fa. Fra cento, quale significato avranno questi versi (o versi analoghi)? Ci sarà ancora una Contrada dove “andare”? Possibile. Le Contrade e la vita di contrada si sono adeguate alle rivoluzioni dei secoli e sopravvivono, l’una e l’altra, anche se profondamente diverse da come erano centinaia di anni fa. Fino ad oggi, questa è stata la grande sfida e la grande forza della cultura contradaiola. Chissà se sarà in grado di affrontare e vincere anche le sfide del futuro.

Roberto Cresti
Maura Martellucci