Scorpioni, grappa e sterco umano: pillole e altri “medicamenti” contro la pestilenza

In ogni epoca, quando i medici si sono trovati ad affrontare malattie conosciute, la prima cosa è stata cercare affannosamente una qualche cura. Questo è ovvio, ma quando scoppiò la famigerata peste nera del 1348 gli strumenti erano pochi, così, oltre a raccomandare di stare al chiuso e al buio (ah, solo avessero saputo che il bacillo moriva se esposto alla luce dei raggi, caldi, del sole, ma per questo dovranno passare almeno altri cinque secoli), si praticavano salassi per succhiare il sangue “corrotto” (oggi trovare una manciata di sanguisughe facile facile non sarebbe), si incidevano i bubboni (pensate a cosa ne veniva fuori) e si raccomandavano i bagni nell’urina che era considerata un potente disinfettante (e in questo avevano ragione: contiene ammoniaca e chi è vissuto in campagna sa che era il rimedio immediato usato dai nostri nonni e bisnonni quando erano nei campi e si ferivano, mica avevano l’acqua ossigenata nel tascapane!).

Poi le cure si “affinarono”.  Furono introdotte le “pillole contro la pestilenza” e la ricetta era semplice: prendete “brettonica e propinella, di ciascuna oncia mezza, poi camedrios oncia una, e tritinsi minutissimamente come polvere che si usa nel male degli occhi. Poi ricette mirra eletta oncie due, aloepatico oncia una e mezza, croci, broli armetrici, di ciascuno drama mezza. E queste due cose si crivellino e e spolverezzandosi e con acqua di vita e buglioso, nella quale stiano uno dì e una notte disolute, le polvere delle dette erbe si colano e faccinsi pillole” (solita raccomandazione: niente incetta di tali ingredienti, tanto questo è un virus e anche contro il bacillo della peste ebbe poco successo).

I consigli su cosa mangiare e bere hanno fatto parte delle cure mediche in ogni tempo (dite la verità: avete tutti in casa arance, kiwi e vitamina C, vi vedo!). I dottori del passato raccomandavano così di non mangiare “pollame, uccelli acquatici e maialini di latte, non carne stagionata di manzo e carne grassa, ma solo carne di animali di natura calda e asciutta e sono altresì da evitare carni che riscaldano e infiammano”.

Si consigliano, invece, “brodi con pepe pestato, cannella e altre spezie, soprattutto per coloro che normalmente mangiano poco e in modo ricercato”. Inoltre era considerato “malsano” dormire durante il giorno e si poteva dormire solo fino all’alba (per questo non c’è pericolo: chi scrive li sognava giorni di riposo e ora non chiude, praticamente, occhio!). E per il bere? A colazione poco, a pranzo potrà essere assunta una maggiore quantità di liquidi rispetto alla colazione, in particolare vino chiaro e leggero cui andrà aggiunto un sesto d’acqua. “Innocui (nel senso che se ne possono mangiare a sfinimento, n.d.r.) sono da considerare i frutti freschi e secchi se assunti assieme al vino”. 

Insomma un “gottino” fa sempre bene. E non se lo fecero ridire due volte a Bassano del Grappa dove, nel museo dedicato a questa bevanda, si trovano tutte le ricette studiate contro la peste dai medici del XVI secolo a base di acquavite. Ad esempio si potevano prendere tre cime di ruta, una noce, un fico secco e porre il tutto “in mezzo bicchiere di acqua di vita per ore tre. E poi bevete”.

E se uno era temerario aveva la possibilità di fare in casa questo rimedio: “pigliate sterco d’uomo da dieci fino a dodici anni, non altramente, e fatelo seccare e fatene polvere, e detta polvere si vuole operare in questo modo: mettetene non più di due cucchiai in un bicchiere di acqua di vita e distemperare (ci credone! n.d.r.)”, tuttavia, prosegue la cronaca “di queste si sono viste in più persone molte esperientie”.

Ora che a bicchierate di grappa, più o meno “corrette”, i malati avessero un temporaneo sollievo ce lo possiamo pure immaginare, anche perché le dosi erano tali, si dice, da “far resuscitare un morto” e venivano somministrate ad adulti e bambini. Ma a Siena non siamo da meno ed un medicamento anti peste viene messo a punto  anche dal futuro San Bernardino (siamo, logicamente, durante “l’ondata di ritorno”, come si denominano le epidemie successive alla peste nera, del 1400). Egli elabora un unguento a base di olio d’oliva e scorpioni da prepararsi sotto la luna d’agosto: deve essere lasciato a bollire per dodici ore e poi deve riposare 12-14 giorni prima di poter essere applicato sulle parti infette (gentine, non scherzo mica: la ricetta esiste ed è conservata in Archivio Arcivescovile). 

Bernardino degli Albizzeschi (nel 1400 ha 22 anni ed è ancora un giovane studente di Diritto) si prodiga moltissimo nell’assistere gli appestati ricoverati nell’ospedale di Santa Maria della Scala: incide i bubboni e cura le parti infette con il suo olio, ma, come narra “era tanta puzza a lo Spedale, che non vi si potea abitare solo per la puzza de la pistolenza”. E prosegue: “El riparo era questo, che vi si faceva molto fumo e fuoco: questo era il miglior riparo che si potesse fare”.

Come andò a finire? Contrasse egli stesso la peste, ne guarì, e da qui iniziò il suo cammino di predicazione e di fede che lo portò a diventare il Santo “molto lezzo” (con rispetto parlando: ma non gli andava bene quasi niente) ma molto venerato che tutti conosciamo.

Maura Martellucci