Quando, nel 1855, l’epidemia di colera impedì le Feste di agosto. Ci riuscirà anche il Coronavirus? E poi un pochino di Sciascia.

Non so se iniziare con la storia o con l’attualità questo articolo di oggi. Non so se iniziare con la riflessione sbagliata, sbagliatissima perché campanilistica, che, forse, a Siena, la “minaccia” (o, meglio, la prospettiva) di dover posticipare il Palio di luglio, convincerà i senesi a stare davvero in casa il più possibile. 

Questa mattina, infatti, il sindaco Luigi De Mossi ha ipotizzato la possibilità che la Carriera di Provenzano possa “slittare” se la situazione di emergenza si prolungherà. Certo se si pensa che di questi tempi, in tempi normali, staremmo già pensando ad allenamenti, corse di addestramento, previsite, insomma, se, di questi tempi, tutta la “macchina” del Palio si sarebbe già messa in moto, solo questo ci fa capire quanto ciò che stamani il sindaco ha ventilato possa diventare, presto, reale. E non perché a luglio saremo ancora in queste pezze (ognuno faccia gli opportuni scongiuri) ma perché anche la struttura organizzativa potrebbe diventare problematica.

In passato abbiamo avuto solo un caso (a quanto ricordi) di Palio ufficiale rimandato a causa di un’epidemia. Si trattava di colera quella volta.

Tra la fine del 1854 e l’estate del 1855, infatti, in Toscana si ebbero oltre 56.000 casi di colera con un numero di decessi che superò le 30.000 persone. Numeri impressionanti. A Siena, tuttavia, non si erano registrate vittime e a luglio la Carriera si era svolta con regolarità e con la vittoria della Chiocciola. Ma l’estate, con il clima torrido che favoriva i contagi, portò la Magistratura Senese a riflettere se tenere o meno le tradizionali Feste di mezz’agosto dedicate alla Madonna Assunta. Erano feste che duravano giorni e giorni e richiamavano in città centinaia di persone da ogni luogo. Così, tra il 9 e il 10 agosto, si stabilì di sospendere ogni festeggiamento (si doveva essere solidali con le città decimate dalle morti, ma, soprattutto, si doveva preservare Siena da ogni possibilità di diffusione del morbo) e si dispose non solo “la sospensione delle Carriere alla lunga ed alla tonda che avrebbero dovuto effettuarsi nel 15 e 16 di detto mese” ma anche la tradizionale, importante, fiera di bestiame che si teneva fuori della Porta Camollia. 

L’unica celebrazione consentita fu “la funzione votiva dell’offerta del Cero nel 14 di detto mese alla chiesa Metropolitana”, alla quale prese parte un numero impressionante di persone, sia della città sia provenienti da tutto il territorio Stato, convinte che sono grazie “alla intercessione della gran Madre di Dio Maria Santissima Advocata Senensium questa città [fosse rimasta] immune da un tal flagello, non essendosi verificati che alcuni casi di dolori cholerici, giudicati per cholera”. La Madonna Assunta aveva, nella devozione popolare e, forse, anche nella realtà (certo insieme ai molti provvedimenti sanitari presi da una commissione appositamente istituita) ancora una volta, protetto la sua Siena. Il Palio venne recuperato il 15 agosto 1856 e vide trionfare l’Onda.

E lo fece solo Siena? No, certo: a Bologna, raccontano le cronache, in quel 1855, si festeggiarono senza solennità le celebrazioni per San Petronio e non si tenne nemmeno, il consueto palio o corsa dei “barbari, “sul classico percorso, che attraversa tutto il centro di Bologna, tra il Ponte della Carità in San Felice e Porta Maggiore”.

Diverso l’atteggiamento dei fiorentini. A Firenze, il colera fece ben 26.000 vittime, cifra enorme per un Granducato che contava, in totale, una popolazione di meno di due milioni di abitanti. I ricevimenti di palazzo e le feste popolari, come il palio di San Giovanni o la corsa dei cocchi, scandirono la vita, sempre uguale, scrivono i cronisti, per esorcizzare un male oscuro che non si sapeva come arginare.

A Siena sì, anche allora, agirono in maniera tempestiva e salvarono la città. E agirono, in maniera solidale. Tempestività e solidarietà, due parole da tenere a mente e su cui riflettere in questa primavera 2020 che passerà alla storia. E, mentre chiudo l’articolo, sorrido all’idea di una “Maura” del futuro che narrerà di questi giorni e capisco, più che mai, che fare storia è raccontare ciò che è accaduto ieri con la mente e con gli occhi di oggi. Cosa proviamo, i retroscena di questi giorni, il nostro vissuto, tutto quello che non è documento “ufficiale” potrà non divenire mai storia. Peccato. Pazienza. A meno che, come auspicava (anche se disperandone) in un bellissimo passo Sciascia ne “Il Consiglio d’Egitto”, non ci sia un orecchio abbastanza attento da udirlo. A volte ci sono stati storici così. Potranno essercene ancora e raccontare le nostre molteplici microstorie delle nostre quotidianità

Marco Crimi