Quando dissero “è solo un’influenza”, ma lei si chiamava “Spagnola”

Il nome scientifico era virus H1N1, ma alla storia c’è passato come “Spagnola”. E pensare che la Spagna, in questo, c’entra poco perché l’epidemia non era scoppiata per niente lì, ma in America, e in Europa c’era arrivata coi soldati che, in quel 1918, stavano combattendo l’ultima fase della Prima Guerra Mondiale. La chiamarono Spagnola, perché la Spagna – nazione che non era in guerra – non aveva bisogno di censurare le notizie sul contagio come, invece, per non creare panico e non demoralizzare le popolazioni, fecero a lungo e  sistematicamente le altre nazioni. Minimizzare, fu la parola d’ordine delle Prefetture quando cominciò l’epidemia; non create panico; in poche parole: negate, negate, negate quanto più potete. E infatti, all’inizio, sui giornali (tranne, appunto, quelli spagnoli) le notizie sulla Spagnola furono relegate in stringati comunicati nelle pagine interne. Tuttavia, in mezzo ai continui e sempre meno praticabili tentativi di sminuirne la portata, l’epidemia, nel frattempo, contagiò, nel mondo, circa un miliardo di persone e se ne portò sotto terra circa 21 milioni, in aggiunta a tutti quelli che, nel frattempo erano morti e stavano morendo sui campi di battaglia d’Europa.

La malattia (che privilegiava, come vittime, i giovani rispetto agli anziani) si presentava con una sintomatologia caratterizzata da febbre alta, brividi, spossatezza, dolori lombari, talvolta cefalea, talvolta tosse. Se non t’ammazzava, dopo 3 o 5 giorni potevi andare a portare un cero alla Madonna e l’avevi sfangata.

In Italia il virus arrivò in primavera (fra aprile-maggio) e, lì per lì, fece danni relativi; poi ci fu l’estate e i contagi rallentarono, dando l’illusione che fosse passata (questa s’è risentita!), ma con l’autunno arrivò l’ondata peggiore. Alla fine del disastro, la regione più colpita risultò la Lombardia, con poco meno di 37.000 morti, seguita dalla Sicilia con quasi 30.000. In Toscana, dopo il blando contagio primaverile che aveva fatto scambiare il virus per un’influenza, solo un po’ più birba di altre (anche questa s’è risentita), l’autunno del ’18 mise la popolazione a dura prova: a Firenze, per la carenza di posti-letto, il Comune concesse l’uso di palazzo Bastogi perché la mortalità giornaliera (che in tempi normali era di circa 13 persone) ora era schizzata a 115. A Pistoia (dove crearono addirittura rivendite riservate ai contagiati, per evitare al massimo i contatti) non ce la facevano nemmeno a smaltire le salme, tanto più che cominciarono a scarseggiare le casse da morto e i cadaveri venivano accompagnati alla sepoltura avvolti in lenzuoli impregnati di disinfettante, e con riti sbrigativi e desacralizzati. Da Pisa, dove il personale sanitario era al collasso, chiesero aiuto alla direzione della Sanità Militare perché mettesse a disposizione della struttura civile il personale dell’ospedale militare di Livorno. Spiacenti, fu la risposta, la convenzione fra le due istituzioni sanitarie non prevede niente del genere. La convenzione era stata stipulata PRIMA dello scoppio dell’epidemia, ma la burocrazia fu, come di regola,  inflessibile, e che a Pisa si arrangiassero. Del resto, a Roma cos’altro avevano potuto fare se non mettere in stato di mobilitazione anche gli studenti del 4° e del 5° anno di Medicina?

Come ci si difendeva? Col chinino, panacea dell’epoca, sostennero in molti. Ma nemmeno per sogno, obiettarono i medici: il chinino non serve a niente. Meglio stare attenti al distanziamento sociale, a non creare assembramenti (e i giornali si scagliavano un giorno sì e un altro pure contro chi se ne fregava delle regole). Vietato baciare, abbracciare, dare la mano (“sudicia abitudine”, la definì Benito Mussolini giornalista, all’epoca, del “Popolo d’Italia”: infatti quando fu al potere la sostituì col saluto romano. Hai visto mai si fosse ripresentata la Spagnola…). Le pubblicità dell’epoca, oggi, ci appaiono drammaticamente esilaranti, ma c’era chi davvero sperava aiuto da dentifrici disinfettanti, dal melitolo, dall’acqua di colonia PIM, oltre che dal caffè, dal vino e dai superalcolici (rimedi, quest’ultimi due, non solo inefficaci, ma proprio controproducenti, si sgolavano ad avvertire i medici). Ah, buona norma era quella di munirsi di sputacchiere tascabili anziché sputacchiare direttamente in terra. E, ovviamente, mascherine sulla faccia.

E a Siena? A Siena che successe?

Di quel che successe si sa poco, perché nessuno ha mai seriamente studiato questa vicenda in chiave locale, ma una scarna paginetta dell’Ufficio di Igiene del Comune (rinvenuta e fornitaci da Gabriele Maccianti: grazie) riporta le stime (distinte fra civili e militari) dei deceduti dal settembre del ’18 all’aprile del ’19, quando il flagello stava finendo. Nel settembre il conto è pari: muoiono 4 civili e 5 militari, ma nel terribile ottobre i civili sono già 58 e i militari 45. Poi si cala 40-21 e a dicembre per due soli militari morti, ci sono 46 civili defunti, con un rapporto che si ripresenta a gennaio dell’anno dopo: 30 civili per 4 militari. Alla fine, in città risulteranno morti 200 civili e 78 militari. Pochi? In proporzione ad altre realtà, certo, non è un’ecatombe, ma se si pensa che Siena, all’epoca, non raggiunge nemmeno i 24.000 abitanti, la percentuale tanto piccola non è. Comunque, certo, c’era a chi era andata peggio. Che cosa aveva fatto sì che i danni fossero minori che altrove? Non si sa, ma la mente fa riaffiorare un ricordo: durante la peste del 1630 (che, sostanzialmente, a Siena non s’era fatta sentire) avevano messo sulle porte, per preservare la città dal contagio, il monogramma di San Bernardino (andate a vedere: ci sono ancora). Vuoi vedere che il simbolo era a lunga scadenza e che , quasi trecento anni dopo, funzionava sempre? All’epoca sì, che le cose le sapevan fare!

Duccio Balestracci