Nicoló, Duccio e il senso delle cose: il Manicomio, la farmacia dell’anima

Nicolò, Duccio e il senso delle cose è la rubrica settimanale di giornalismo narrativo su Siena proposta da SienaNews. Gestita da due giovani, Nicolò Ricci per la fotografia e Giada Finucci per la scrittura, vuole portare lo sguardo delle nuove generazioni sulla città. Il suo scopo è quello di valorizzare luoghi di Siena attraverso la fotografia e il racconto.

La lezione di letteratura contemporanea si tiene in un’aula a piano terra, dagli infissi verde acqua e i lunghi banchi di legno, la porta d’entrata sul fianco sinistro della scalata principale. Due volte a settimana vado a lezione, due mattine ogni sette giorni attraverso, zaino alle spalle, l’arco sul cui travertino scurito dal tempo spicca in stampatello la scritta “Ospedale psichiatrico”. Le prime volte tendevo a ignorarlo, “sto andando solo all’università, quello su cui devo concentrarmi è il contenuto della lezione”, scansando il peso della storia che in quel luogo si cela.

 

Ma ogni particolare che incontriamo sulla via che abbiamo scelto di seguire ci rimanda al pensiero che volevamo escludere. Così, se qualche volta entro in aula in ritardo, è perché la mia attenzione si ferma sulle colonne bianche, simili a quelle d’un tempio, della vecchia farmacia. Costruita vicino al cancello d’ingresso, faceva da ponte di collegamento fra il dentro e il fuori. Nel retrobottega i pazienti, sotto comando del farmacista, preparavano i farmaci per tutta la città. Il manicomio di Siena è infatti famoso per le pratiche di Ergoterapia, introdotte dallo psichiatra Carlo Livi, che prevedeva che i pazienti venissero inseriti all’interno di attività lavorative affini a quelle che svolgevano prima di entrare in Ospedale. Fra le diverse botteghe, il lavoro della farmacia è quello che più mi scuote: loro, i “pazzi”, i malati per eccellenza, erano coloro che preparavano le medicine per i “sani”. Ci si cura solo facendo qualcosa per l’altro. E loro cercavano un po’ di salvezza, mescolando le giuste dosi di ingredienti per curare i malanni della società che li aveva reclusi.

 

In classe, l’orecchio teso alle parole del professore, penso che sia un bene che il luogo emblema della disumanizzazione sia adesso riconvertito a luogo di cultura. Entro le stesse mura che per anni hanno nascosto tutto ciò davanti cui la società abbassava lo sguardo, si alimenta adesso un pensiero critico. La cultura veicolata negli spazi in cui, in precedenza, ad altri tutto è stato negato, rimbomba ancor più forte entro l’animo di ciascuno.

 

Far lezione al San Niccolò non ti insegna solo la materia per cui ti sei iscritto all’Università. A ogni cambio di aula, a ogni ricreazione passata attorno alla fontana del padiglione principale, ti fai un’idea di cosa siano l’ingiustizia, l’esclusione, i diritti inalienabili. Impari che l’uomo, cercando la semplicità nel voltare le spalle a ciò che non comprende, si preclude la parte più ricca della vita. Fai un confronto con oggi, e vedi che le mura e i fili spinati che per secoli hanno separato il “malato” dal “sano” non vi sono più, ma anche che le regole di esclusione sociale non sono scomparse: meno evidenti e per questo più insidiose, ti auguri di saperle riconoscere e di non fingere, di non fingere mai, di non aver visto nulla.

Duccio

Testo di Giada Finucci

Foto di Nicolò Ricci

 

Questo slideshow richiede JavaScript.