Inventare parole è più facile che attirare turisti

LA GRANDE SIENA DEL TURISMO

Mai come in questo anno di imprevedibile crisi del turismo – ed in verità di tutti i settori economici e sociali – c’è stata la gara da inventare parole che dovrebbero (ripeto: dovrebbero) rappresentare nuove tendenze o fenomeni di costume fondamentali per gli operatori del settore. I quali dovrebbero subito inseguirli ed adeguarsi, mentre spesso, invece, li ignorano bellamente. E di per sé la cosa non è né positiva, né negativa.

Per tanti anni abbiamo degustato la parola storytelling (narrare storie), che è in effetti piacevolissima da pronunciare. È stato Beppe Severgnini a scrivere che gli americani bevono vino chardonnay, ordinano un cappuccino e raccolgono le miles, le miglia delle compagnie aeree, perché adorano ascoltarsi mentre pronunciano queste tre parole.

Ma adesso che parlare di storytelling è fuori moda, non è più fine, la nuova parola che si cerca di lanciare – ci sono inciampato in Facebook – è storydoing (narrare storie attraverso i fatti), che mi sembra abbia però un suono meno melodioso, forse perché quella d è troppo dura da pronunciare, e pertanto rischia di avere meno successo. E va da sé che subito si è introdotta la differenza anagrafica: lo storytelling è per i Millennials, lo storydoing è per la generazione Z.

Naturalmente, questo dibattito rarefatto ha anche una sua validità concreta, corrisponde a fenomeni reali, ma ha – almeno ai miei occhi – un difetto imperdonabile: è troppo più facile inventare una parola nuova, che portare un turista in più in una città o in una destinazione.

Regge ancora bene, nonostante gli anni, turismo esperenziale, ma deve adesso lottare contro la concorrenza dei nuovi arrivati: prima staycation, ovvero l’opportunità, se non l’obbligo di fare vacanze vicino a casa per evitare i disagi ed i rischi derivanti dalle misure anti Covid-19 in paesi stranieri; poi new normal, la nuova normalità di un turismo, che deve convivere appunto con una pandemia che dura da mesi e che, in alcuni paesi, causa purtroppo ancora molte vittime ogni giorno.

Un nuovo scenario profondamente diverso dal precedente, come in effetti è. Ma in trent’anni che mi occupo di turismo, di new normal ne ho vissuti almeno cinque o sei, e sono arrivato alla conclusione che di normale – nel turismo – c’è davvero poco.

Ha avuto una fiammata di grande notorietà – ma adesso sembra invece un po’ arrancare nelle retrovie della dottrina turistica – il digital detox, la voglia di disconnersi da internet e dai social per un periodo non brevissimo di tempo, diciamo almeno una settimana. Altrimenti, beh, staccare lo smartphone per 48 ore è troppo facile e non produce nessuno effetto di disintossicazione. Qualcuno ha provato a sostituirlo in corsa, come fossero le gomme di una auto di Formula 1, con detox e basta, ovvero con il desiderio di depurare le tossine del lungo periodo di confinamento in casa (il lockdown) che abbiamo vissuto da marzo a giugno.

Ma la parola è piaciuta ancora meno: forse stare a casa non aveva poi prodotto così tante tossine. O forse le parole con la x non sono abbastanza gradevoli da pronunciare.

Roberto Guiggiani