‘Il premio Viva Maria è un insulto al buon senso’

di Roberto Barzanti
Aver intitolato un premio “Viva Maria” è stata una pessima idea e fa torto anche agli organizzatori, gli “Amici del Timone” di Staggia, perché proietta un’ombra inquietante – e deformante – sulla loro iniziativa e sulla loro stessa identità. Il dibattito nato in merito, in vista dall’assegnazione del riconoscimento, il prossimo 17 settembre, a Vittorio Messori, ne è la riprova. Che si dia voce ad un’esperienza di fede ispirata ad una linea esplicitamente incline al tradizionalismo, e comunque polemica verso un’accezione liberale e laica dell’esser cattolici non desta scandalo. Le modalità della militanza pubblica dei cattolici sono state da sempre variegate e chi crede davvero all’effetto benefico del pluralismo non può che ritener salutare una dissonante presenza, che rilanci questioni sottovalutate o marginalizzate. E che lo faccia anche con un certo spirito provocatorio, ai giorni d’oggi necessario per farsi ascoltare. Ma intitolare un premio al “Viva Maria” va al di là di qualsiasi pur intenzionale “integralismo”: è una sfida al buonsenso e si ritorce contro gli ideatori. Inevitabilmente spinge a rispolverare temi che la storiografia ha molto approfondito. A chi giova resuscitare interpretazioni forzosamente ideologiche o rivendicazioni macroscopicamete unilaterali? Oggi siano in grado di pensare la sequenza di avvenimenti compresa più o meno tra il 1796 ed il 1815 con una più piena ed equilibrata consapevolezza. Comunque si voglia valutare l’insieme delle cosiddette “insorgenze”, delle “rivolte dimenticate” (secondo la definizione di MassimoViglione), esplose qua e là nella penisola, in Sardegna e a Genova, in Tirolo e nei Ducati emiliani, in Romagna e nel Regno di Napoli, è fuori discussione che il moto del “Viva Maria”, scatenatosi ad Arezzo nel maggio 1799 ha caratteri suoi propri. Esso convoglia una serie di elementi che non devono essere separati. L’esplosione della protesta contro certe misure del riformismo leopoldino da parte della nobiltà più conservatrice si unì al crescente malessere dei contadini. Chi sentì – soffrì – l’occupazione francese come un’offesa intollerabile all’indipendenza civica, chi la percepì invece come salutare rottura con un regime incapace di misurarsi con l’impetuoso vento di novità che scuote l’Europa. La difesa di tradizioni radicate e di amate consuetudini espresse un attaccamento non sempre etichettabile come rozzo sanfedismo. Una bibliografia ormai assai abbondante sconsiglia, insomma, semplificazioni a senso unico. E giustamente si è detto e ripetuto che la storia politica e la storia sociale devono fare i conti in questo caso con le categorie della storia culturale e religiosa, con l’indagine sulla “pietas” e sulle pratiche devozionali, sull’importanza dell’immaginario e sull’ambigua attrattiva del simbolico. Lo slogan del “Viva Maria” adottato degli insorti aretini esaltò un uso miracolistico e prevalentemente politico del culto della venerata statuetta della Madonna del Conforto, la piegò ad un’aspra declinazione temporale. Le cronache attestano che quel grido, urlato scompostamente da bande inferocite e aizzate ad arte da chi puntava a mantenere in essere decrepiti privilegi, accoppiava al nome della Vergine quelli dell’Imperatore e del Granduca Ferdinando III: una trinità che – si ammetterà – manifestava la persistenza di un’alleanza tra trono e altare tutt’altro che santa e non certo limpida di pura spiritualità. Voglio essere esplicito su un punto molto delicato. Spesso, anche nella storiografia più affermata, si è fatto ricorso, in particolare per la Rivoluzione francese, a etichette quali “populace”, plebaglia, plebe, contadiname e simili per definire sbrigativamente masse che hanno diritto a entrare nella narrazione storica con la complessa articolazione di sentimenti della quale erano più o meno confusamente portatrici. Si ripresenta qui – e di questo, in controluce, discutiamo – il tema spinosissimo del posto da assegnare ai vinti nella narrazione storica, dell’ottica da assumere per evitare il rischio di scrivere privilegiando esclusivamente lo sguardo dei vincitori e la presunta razionalità degli esisti finali. La pagine di storici come Gabriele Turi, Roberto Salvadori, Ivano Tognarini – faccio solo qualche nome – ci hanno invitato a soffermarci su un quadro molto complicato. Di recente la ricerca di Francesca Piselli su “‘Giansenismno’, ebrei e giacobini’ a Siena. Dall’Accademia ecclesiastica all’Impero napoleonico (1780-1814)” (Leo S. Olschki editore, Firenze 2007) ci ha permesso di penetrare, sulla scorta di preziosi documenti inediti, nel dedalo di quel periodo di transizione, negli umori e nelle lotte che precedono l’esplosione cruenta del “Viva Maria” e ne rendono più chiare origini e finalità. Le bande di provenienza aretina (e non certo interamente composte da cittadini di Arezzo e dintorni) che avevano eletto la Madonna a “Generalissima dell’ Armata” avevano fatto, prima di entrare in Siena il 28 giugno 1799, non pochi guai. Sbandati austriaci e delinquenti comuni si erano uniti con furore, come accade nelle sommosse. Chiunque fosse sospettato di nutrir simpatia per i nuovi principi libertà, eguaglianza e fratellanza, propagandati con entusiasmo o inculcati a forza, rischiava la pelle. Il poema di Agostino Fantastici “I pèsti riconquistati” evoca a tinte crude le imprese di quelle ore dolorose e non trascura di schizzare il ritratto grottesco di taluni sciagurati protagonisti, come il famoso strascino Gallinaccio: “superstizioso, vile, empio, assassino/ stringea per arme un de’ più grossi pali / e un coltellaccio da scannar maiali”. Il suo nome di battesimo capeggia l’elenco dei 17 senesi – ma erano molti di più – che Santino Gallorini ha individuato tra partecipanti alle gesta dell’infausto giorno. E anzi egli addebita il pogrom dei 13 ebrei arsi nel Campo per intero a cittadini senesi deducendo che è inesatto ascriverlo, anche indirettamente, al “Viva Maria” (e agli aretini). Gli studi dati alle stampe da Santino Gallorini – mi riferisco in particolare a “ Viva Maria e Nazione Ebrea” (Calosci, Cortona 2009) – meritano di essere attentamente soppesati. Non ha senso, del resto, separare altezzosamente contributi eruditi di taglio locale e storiografia di respiro generale. Quando un lavoro è svolto con onestà documentaria ha il diritto di entrare in bibliografia, quali che siano le tesi che si prefigge di argomentare. Ciò non impedisce di muovere consistenti obiezioni alla posizione sostenuta. La matrice indubbia entro la quale si inscrive il massacro, quasi annuncio di vicende che tragicamente avrebbero attraversato l’Europa, è l’ondata del “Viva Maria” e la trucida catena di uccisioni e saccheggi che perpetrò. E sarebbe banale e riduttivo degradare il problema delle responsabilità ad una disputa di campanile o a una disamina anagrafica dei facinorosi. Che i senesi abbiano preso parte in gran numero ai fattacci è sicuro. Il fatto che il commissario francese Abram fosse di religione ebraica aveva oltretutto caricato di odio antiebraico l’animosità dei rivoltosi: avevano una ragione in più per seguire la facinorosa Inclita Armata delle Fede, che mosse verso Siena al comando del sacerdote Giuseppe Romanelli. La presenza massiccia di numerosi esponenti del popolino di Siena non attenua o cancella le responsabilità politiche di chi aveva ordito la trama e reggeva le fila. E tra chi aveva promosso e poi tollerato l’irruzione delle bande di provenienza aretina non si esclude che ci fosse addirittura il senesissimo arcivescovo Anton Felice Chigi Zondadari, in accordo con i papisti che avevano accompagnato nel breve esilio senese Pio VI. La circostanza non è comprovata, anche se insistenti furono le voci diffuse in questo senso. Il ruolo del presule non va limitato alla pur lugubre “boutade” che avrebbe pronunciato mentre si scatenava la caccia all’ebreo: “furor populi, furor Dei”. Quanto alla sfilza di nomi senesi essa è ricavata – si può osservare e non come attenuante – dalle carte superstiti dei processi istruiti dalle autorità senesi, per le quali era facile (e utile) incolpare i residenti più che altri di passaggio. Riflettendo sull’accertamento della massiccia responsabilità anche di senesi nel massacro attuato al grido di “Viva Maria” i timonieri di Staggia potrebbero trovare un ulteriore argomento (validissimo e oggettivo) per non più denominare il loro premio con l’atroce slogan che siglò una pagina cupa di intolleranza e di violenze. Davvero non cristiana.