E’ morto Attilio Lolini, poeta e giornalista del Novecento con le radici di Siena

Non era una persona facile. Sempre educatissimo, sempre sottotono, sempre misurato. Ma di una causticità corrosiva: era capace di esprimere concetti tanto sintetici quanto taglienti, a volte urticanti. E non aveva reverenze o piaggerie per nessuno: era una persona mentalmente libera e indocile a qualsiasi tipo di compromesso. Attilio Lolini era così: sostanzialmente scomodo; cosciente di essere scomodo; assolutamente noncurante di esserlo.
Era nato nel 1939 e se ne è andato qualche giorno fa, dopo che da un po’ di tempo aveva scelto una vita perfino ancor più appartata di quella pur appartatissima che aveva sempre condotto: schivo e riottoso ai palcoscenici e ai riflettori; sdegnoso e sarcastico flagellatore degli adepti della gloriuzza effimera.
E sì, che, se avesse voluto, di materia per proporsi vistosamente ne avrebbe legittimamente avuta. Le sue poesie le pubblicava Einaudi, nella mitica “bianchina” che ha ospitato e ospita tutti i grandi nomi della letteratura poetica mondiale: Belle lettere, Notizie dalla necropoli, Carte da sandwich. Lo conoscevano e lo apprezzavano all’estero. E, all’estero, lo traducevano anche: per dire, compaiono traduzioni di sue opere in francese! E Dio sa quanto sono malmostosi i francesi per tradurre nella loro lingua autori stranieri: bisogna che abbiano davvero una considerazione a tutto tondo, per farlo, altrimenti non ci pensano nemmeno.
Il suo mestiere di poeta lo aveva messo in contatto con una costellazione di nomi della cultura e della letteratura internazionale da intimorire; ne butto lì qualcuno a caso: Gianni D’Elia, Sebastiano Vassalli, Antonio Prete, Ginevra Bompiani, Franco Fortini, Edmond Jabès, Tommaso Di Francesco, Elena Pontiggia, Vincenzo Consolo, Vanni Scheiwiller… possono bastare per rendere l’idea?
I suoi campi culturali di riferimento erano, peraltro, quelli sperimentali e innovativi: le sue cose comparivano per “Salvo imprevisti”, un progetto culturale che negli anni Settanta proponeva modelli di scrittura e di approccio d’avanguardia; così come proponeva percorsi nuovi “Quaderni di Barbablù” e come li propongono le edizioni de “L’Obliquo”.
I suoi testi li aveva prestati al cugino, un grande nome della musica d’avanguardia, Ruggero Lolini, uno dei non molti musicisti italiani viventi impegnati in un rinnovamento musicale radicale, per il quale aveva approntato una serie di libretti d’opera.
Ottimo traduttore, fra i non pochi autori tradotti (fra i quali Zola), aveva affrontato la resa in italiano dell’Ecclesiaste con un risultato che mette il suo lavoro fra le più emozionanti versioni di quello che è, a parere mio, il più bel libro della Bibbia.
Ma Lolini, oltre che poeta, era giornalista. Aveva scritto per “L’Unità”, per “il manifesto”, per il “nuovo corriere senese” e dopo la scomparsa della testata per “La Voce del Campo”. Per i giornali locali amava scrivere corsivi impietosi: aveva in uggia il perbenismo, il conformismo, il tartufismo. Sferzava la città con impietosa severità; si faceva un punto d’impegno nello sbeffeggiare miti e tabù. E infatti pubblicarlo non era facile. Quando ero direttore del “nuovo corriere senese” (e gli lasciavo scrivere quel che voleva e come voleva: ci mancherebbe altro) ho più di una volta dovuto fare da parafulmine di ire e recriminazioni di chi si sentiva messo alla berlina o si riconosceva in qualche caricatura del perbenismo di provincia che Lolini detestava di cuore. A volte i suoi bersagli erano alti e non esitava a sparare bordate contro nomi e memorie condivise e inattaccabili. Ricordo quanto suscitò un pazzesco putiferio perché scrisse un articolo sulla Siena del conte Guido Chigi Saracini dandogli sostanzialmente del provinciale dai gusti limitati. Se avesse bestemmiato la Maestà di Duccio ne sarebbe venuto fuori meno scangèo: abbonati che interruppero l’abbonamento, lettere sdegnate in redazione, persone che mi fermavano per strada inveendo contro Attilio, contro il giornale e (legittimamente) contro di me che ne ero il direttore. Il bello è che io non condividevo per niente il taglio critico di Lolini sul Chigi Saracini, ma nella mia carriera di direttore di giornale non ho mai censurato nessuno. Figuriamoci se censuravo lui. Ero (e sono) in disaccordo sulla sua lettura del grande aristocratico, ma Lolini la pensava così e così lasciai che si esprimesse.
Oggi, però, i fustigatori non vanno più di moda, sostituiti dall’inconcludente, onanistico mugugno e brutichìo sui social, e Attilio Lolini (che Maria Pia Corbelli ha invece coraggiosamente pubblicato sulla sua testata finché Attilio ha voluto) lascia la sonnolenta città alle sue pigre certezze e al suo sonnacchioso, rassegnato piccolo presente. Forse non ci sono nemmeno più tabù da sfatare e miti da demitizzare, e, non essendocene, Attilio deve aver pensato che probabilmente non serviva più nemmeno lui e se ne è andato lasciandoci a ricordare una stagione diversa, quando era bello essere anticonformisti e sognare di cambiare il mondo. Almeno quello locale. Oggi sognare non ha più senso, e deve averla pensata così anche lui. Me lo immagino salutarci con l’ironia e il sarcasmo che lo connotavano e con la scrollata di testa con la quale sorridendo metteva fine a ogni discussione dando ragione al suo contrappositore. Perché la ragione, si sa, si dà agli strulli.

Duccio Balestracci