Nicoló, Duccio e il senso delle cose: Provenzano, la chiesa che piange

Nicolò, Duccio e il senso delle cose è la rubrica settimanale di giornalismo narrativo su Siena proposta da SienaNews. Gestita da due giovani, Nicolò Ricci per la fotografia e Giada Finucci per la scrittura, vuole portare lo sguardo delle nuove generazioni sulla città. Il suo scopo è quello di valorizzare luoghi di Siena attraverso la fotografia e il racconto.

Luglio afoso e di ripresa lenta, luglio di nuove libertà, alcune afferrate con arroganza; altre appena sfiorate e temute. Luglio silenzioso, in cui i tamburi e le bandiere non affollano, per il secondo anno consecutivo, le vie e le piazze. Luglio in cui Siena è una città più simile alle altre, dove l’estate è un prendersi vacanze, un momento di partenze per il mare e malinconici rientri entro le mura.

In questo luglio, se sto camminando per una Via soprastante, come Via del Giglio o Via del Refe Nero, scendo in Piazza Provenzano. La Chiesa di marmo bianco mi guarda, le pupille ricoperte da un velo sottile di lacrime. E’ sola, mi dice.

 

 

 

Entro. L’acquasantiera sorretta dalle braccia di un putto è vuota e le mie dita, abituate ad tuffarvisi, riemergono asciutte per il segno della croce. Gli occhi affogano nella meraviglia di sempre: le grandi tele affrescate affisse alle pareti, le tende rosse che scendono sul legno scuro dei confessionali. Chiedo cos’è che le manchi, alla Chiesa, perché l’opulenza è tanta e i decori al suo interno vivono inalterati nel tempo.

Le manca la fila colorata di bandiere appese ai suoi lati, dice, il chiasso delle migliaia di scarpe che ogni luglio, da quattrocento anni, calpestano gli esagoni lineari del pavimento e per un mese infrangono la sua monotona linearità. Le mancano le voci, il Te Deum cantato a squarciagola, le emozioni che sul viso dei senesi legge e di cui si nutre. Le manca quel momento di irrazionalità, di semplice lasciarsi andare agli istinti più bassi; momento attraverso cui lei, lo ammette, tocca il cielo. Le panche, poste secondo un ordine geometrico e lineare, alle volte gremite anche di fedeli, non bastano a riempire la sua navata. Ciò che vuole è il caos, la scompaginazione dei suoi elementi, l’urlo dionisiaco del contradaiolo che raggiunge la sua esistenza trattenuta, e la scuote.

Mi siedo su una panca. Senza che me ne accorga, uno dei miei piedi inizia a tamburellare il ritmo delle chiarine sulle mattonelle. La melodia dal mio petto rimbomba nel vuoto interno della Chiesa, l’eco raggiunge l’altare maggiore e riempie le navate laterali. Le prometto che questo è solo un anticipo. Un piccolo appunto per non dimenticare che la festa torna.

Duccio

Testo di Giada Finucci

Foto di Nicolò Ricci