Nicoló, Duccio e il senso delle cose: gli incontri alla galleria Metropolitan

Nicolò, Duccio e il senso delle cose è la rubrica settimanale di giornalismo narrativo su Siena proposta da SienaNews. Gestita da due giovani, Nicolò Ricci per la fotografia e Giada Finucci per la scrittura, vuole portare lo sguardo delle nuove generazioni sulla città. Il suo scopo è quello di valorizzare luoghi di Siena attraverso la fotografia e il racconto.

Rispolvero in mente i racconti di mio zio: le perle che a fine pasto, dopo aver alzato un po’ il gomito, tira fuori dal guscio di venti anni fa. Quelli di quando faceva le superiori e il cortile della galleria Metropolitan era il luogo di ritrovo di ogni sabato. Arrivava sempre per ultimo, diceva. Il telefono per avvisare però non c’era: i suoi amici lo conoscevano e quando arrivava il suo biglietto per il cinema era già stato acquistato. A prescindere dalla stagione, lo attendevano in piazza: alla vista del suo giubbotto trafelato, si tuffavano giù per le scale.

Nel buio della sala, la ricerca di posti liberi vicini lasciava trascorrere ignorato il titolo d’inizio della pellicola. Le prime ore assieme passavano fra un incontro e l’altro di dita salate nello stesso bicchiere di pop-corn e sapendo che gli amici di una vita erano lì, uniti dalla stessa trama che scorreva loro davanti. Si sarebbero salutati dopo, una pacca sulla spalla e un mezzo cazzotto diretto al basso ventre, allo scorrere dei titoli di coda sullo schermo. Serviva prima riprendersi dalla settimana, immergersi in una storia che non fosse la loro, in immagini e dialoghi che offrissero parole nuove per raccontarsi.

E’ a questo punto della storia che lo zio, cantuccio in mano e bicchiere alzato, fa il paragone: il cinema non è come netflix, il film non aspettava certo loro. Ma adesso pensa quasi che preferiva perdersi l’inizio, rispetto al poter tornare indietro e riniziare il film in ogni momento. Preferiva quasi intravedere gli attori attraverso gli spazi vuoti che le teste davanti concedevano e avendo perduto le prime scene. Perché abbandonare le membra nella poltrona, affidare lo sguardo a un unico grande schermo e sentir scivolare via, in compagnia, il controllo individuale degli eventi, dice, è inappagabile.

Mi trovo in piedi, adesso, al centro della piazza. Nella mente scorrono come due vagoni paralleli i sabato sera di mio zio e i miei ultimi: in pigiama, qualche lattina di birra a metà fra me e lo schermo del computer, la chat di whatsapp aperta sul divano per sentirmi un po’ meno solo. La promessa dei dispositivi di mettercela tutta, a creare un’atmosfera sociale surrogata e il mio affidarmi cieco a loro, santuario contemporaneo sempre presente e pronto a rispondere a ogni mancanza invocata.

La tasca mi trema. Estraggo il telefono, è una chat di gruppo. Scorro indietro ai trenta messaggi persi, sto per inviare la mia risposta, quando un alito di vento gelido punge i polpastrelli incollati allo schermo. Sollevo il mento dal mondo virtuale e le sue possibilità infinite di realtà. Lo prendo come un monito: vuole forse ricordarmi che la possibilità di guardarmi attorno, spesso, me la perdo. Dirmi che, seppure la realtà appare adesso meno luminosa e attraente, essa esiste ed è bene non essere un partner troppo distratto nel nostro rapporto con lei.

Decido che non mi importa di interagire, ora, se non può essere con altri corpi. Chiudo le luci del telefono dentro lo zaino e mi godo lo spettro della piazza accogliere il rimbombare sordo dei miei passi. Aspetto che tornino le serate da trascorrere in compagnia. Quelle in cui la tecnologia è un fine che unisce e non l’unico mezzo, disperato, attraverso cui essere insieme.

Duccio

Testo di Giada Finucci

Foto di Nicolò Ricci