Virginia Woolf, L’anima russa

Virginia Woolf, L’anima russa, Lit Edizioni, Roma, 2015.

Tra il pubblico che nel gennaio del 1911 poté assistere al “Pavillon d’Armide” alla Royal Opera House, al Covent Garden, c’era anche Virginia Woolf. L’effetto provocato su di lei da quello che, di fatto, costituì, dopo i trionfi parigini, il debutto sulla scena inglese dei Ballets Russes, fu fortissimo. Le musiche di Borodin e di Stravinskij, le coreografie di Djagilev, le scene di Léon Bakst, furono come un colpo di vento che spalanca la finestra e lascia entrare aria fresca, aria nuova. A ciò occorre aggiungere che proprio in quegli anni furono tradotti per la prima volta in lingua inglese, ad opera di Constance Garnett, i capolavori dei grandi scrittori russi, da Dostoevskij a Tolstoj, da Turgenev a Gogol’.

Fu anche sulla scia di questi fatti che Virginia Woolf si accostò a una letteratura capace di “bucare la carne e rivelare l’anima”, vale a dire di scendere nelle profondità dell’animo umano, là dove crescono, a volte marciscono, i fiori del male. Uno sguardo, quello degli scrittori russi, che dovette apparirle tanto più penetrante quanto più la Woolf era portata ad accostarvi (ad esempio ai “Fratelli Karamazov”) la coeva produzione degli autori inglesi, i quali, restando troppo legati alla mera riproduzione delle apparenze esterne, si precludevano la possibilità di penetrare “il tumulto del pensiero”.

Alcune delle considerazioni svolte sull’argomento dalla Woolf, e affidate a quel tempo a una serie di recensioni apparse sul “Times Literary Supplement”, è ora possibile leggerle in un piccolo volume, ottimamente curato da Benedetta Bini, e pubblicato, col titolo di “L’anima russa”, da Lit Edizioni. I quattro capitoli che lo costituiscono sono “Un nuovo Dostoevskij”, “Il contesto russo”, “Dostoevskij e Cranford”, “Il punto di vista russo”, e nell’insieme ricostruiscono con grande chiarezza sia la novità della maniera di indagare l’esperienza umana da parte della narrativa russa sia la specificità della tecnica di rappresentazione e di scrittura. Il passo che segue è tratto dal capitolo intitolato “Un nuovo Dostoevskij”.

“Per lui (Dostoevskij) un bambino, o un mendicante, è pieno di emozioni violente e sottili quanto quelle di un poeta o di una sofisticata donna di mondo, ed è sull’intricato labirinto di queste emozioni che Dostoevskij costruisce la sua versione della vita. Nel leggerlo, quindi, siamo spesso frastornati perché ci ritroviamo a osservare uomini e donne da un punto di vista diverso da quello consueto. Dobbiamo liberarci dell’antica melodia che risuona con tanta insistenza nelle nostre orecchie, e prendere atto di quanto poco della nostra umanità venga espresso da quel vecchio motivo. Veniamo di continuo portati fuori strada nel seguire la psicologia di Dostoevskij; ci ritroviamo costantemente a chiederci se riconosciamo il sentimento che ci mostra, e costantemente realizziamo con un sussulto di sorpresa che l’abbiamo già incontrato prima dentro di noi, o l’abbiamo intravisto negli altri in qualche momento d’intuizione. Ma non ne abbiamo mai parlato. Ed è per questo che siamo sorpresi. Intuizione è il termine che dovremmo applicare al genio di Dostoevskij quando è al suo meglio. Quando ne è pienamente posseduto, è capace di leggere la scrittura più imperscrutabile negli abissi delle anime più scure; ma quando lo abbandona, tutto il suo sorprendente macchinario sembra girare a vuoto nell’aria”.

Virginia Woolf, L’anima russa, Lit Edizioni, Roma, 2015.

Virginia Woolf, L’anima russa, Lit Edizioni, Roma, 2015.

 

a cura di Francesco Ricci