IL DIARIO DALLA CINA – La delegazione di Montepulciano a Shanghai

di Diego Mancuso

L’immediata associazione di idee che in una persona normale può suscitare la parola  “Shanghai”, pronunciata a bruciapelo, va dal più elementare gioco da tavola con i bastoncini all’immagine di risciò che uomini macilenti, bruciati dal sole e dalla fatica , con un ampio cappello di paglia colorata sulla testa, trainano in mezzo ad un caos di uomini e altri mezzi, magari con un annoiato dandy a bordo.

Shanghai è forse anche quello che appare nell’immaginario individuale ma oggi, con i suoi 25 milioni di abitanti “ufficiali” ed una quantità incalcolabile di attività finanziarie e commerciali, terminali delle più importanti imprese del pianeta o espressione della stessa economia locale, è il cuore pulsante della Cina, autentica capitale degli affari dello straordinario paese asiatico.

“Per il mondo del vino Shanghai è centrale anche per la presenza dell’Enoteca Italiana – Yisheng – dice Andrea Natalini, Presidente del Consorzio del Vino Nobile di Montepulciano, in una breve pausa del vorticoso carosello di trasferimenti sul territorio cinese – punto di snodo per il settore nazionale e preziosa struttura per il sostegno logistico che offre”.

Il programma degli incontri a Shanghai della delegazione di Montepulciano e della Valdichiana Senese è stato particolarmente intenso: in due giornate sono stati concentrati tre eventi, tra sessioni di incontri con i tour operator, un workshop-degustazione con importatori e stampa cinese specializzata e la partecipazione alla presentazione dell’edizione cinese della Guida dei vini del Gambero Rosso che ha richiamato praticamente tutto il meglio dell’enologia nazionale interessata ad un’espansione verso l’Asia nei grandi ed eleganti saloni del Fairmont Peace Hotel, ad un passo dalla sponde del fiume Huangpu e dal Bund, il centro degli affari delle potenze occidentali al tempo della prima liberalizzazione, a metà del XIX secolo.

Ma il gruppo non si è negato, anche grazie alla necessità di attraversare la città utilizzando i taxi condotti con spericolata disinvoltura dagli autisti e, oltre che estremamente economici, regolati da un perfetto meccanismo fiscale, alcune escursioni, necessarie per provare a comprendere questo nuovo mondo.

E unanime è stata l’impressione di ritrovata “leggerezza” che tutti, dopo Pechino, hanno avvertito. La capitale, oltre che dalla spessa cappa di smog, sembra infatti quasi “schiacciata” sotto il peso del suo ruolo, affaticata dall’enorme quantità di simboli che esprime (dall’epoca imperiale all’attuale forma di capitalismo passando per a rivoluzione di Mao) e controllata da un’ingente presenza di Esercito e Polizia che non può passare inosservata e che trova riscontro tecnologico nell’impensabile quantità di telecamere che, a macabri grappoli, adornano tutti i pali della luce delle zone principali della città. D’altra parte anche i recenti, drammatici episodi confermano che la capitale della Cina non vive in una situazione di pace e che dunque il controllo, le ronde, le posizioni di guardia (talvolta impensabili, come quelle affidate a giovanissimi ed intirizziti soldatini lungo le rampe dei sovrappassi pedonali o nei gelidi e spogli tunnel che tagliano nel sottosuolo le immense avenue) sono una necessità per fronteggiare il dissenso armato e violento e per mantenere l’ordine, mostrando i muscoli a tutti, cioè al popolo, sia esso malintenzionato oppure no, che non deve dimenticare la logica dell’equazione partito unico – Governo, agli uomini d’affari ed i turisti.

Pechino è la città, delle tre visitate dalla delegazione senese, con il maggior numero di mendicanti (all’uscita della Città Proibita e nella vicina zona dello shopping tradizionale, una sorta di impressionante catalogo dello strazio umano con amputati e deformi che ostentano le proprie disgrazie), di venditori ambulanti, di banchetti che offrono cibarie obiettivamente improponibili.

Ed ecco invece la rutilante Shanghai, dall’aria di chi sa la lunga, austera quanto basta nella zona di Putong, la penisola degli affari (che gli stessi shangainesi considerano ormai quasi come una città a sé), una Manhattan in miniatura in cui si vede la mano dell’allievo che ha superato il maestro.

Una città magica, folle, sensuale che viaggia a velocità doppia ma in cui, come ci racconta la poliziana Valentina Basettoni, da quasi due anni vice-manager del front office dell’Holiday Inn,  i matrimoni si combinano la domenica in un apposito mercatino animato dai genitori degli aspiranti sposi che montano i loro banchetti con foto e curriculum (!) dei figli alla ricerca dell’ “anima gemella”; e infatti è abitudine delle giovani generazioni della medium class considerare la celebrazione delle nozze non già come l’inizio di una nuova vita ma come una liberazione dal controllo delle famiglie di provenienza per potersi dedicare pienamente entrambi i coniugi, con reciproco consenso, a coltivare relazioni sentimentali autentiche, spesso precedenti al matrimonio combinato.

A Shanghai scegliere un calice di prestigioso vino europeo, come il Nobile di Montepulciano, degustarlo, ostentare il proprio gradimento verso il prodotto vuol dire dichiarare la propria appartenenza ad una classe benestante, gratificata dagli affari, che lavora senza pause ma dimostra, proprio in una delle culle mondiale della vita decadente e disincantata, quella a cui si abbandonarono agli albori del ‘900 i frequentatori delle fumerie d’oppio volute dai mercanti inglesi che sul traffico della sostanza stupefacente costruirono fortune non immaginabili, di sapersi anche godere la vita.

D’altra parte fino al 1842 Shanghai era un centro minore della Cina mentre meno di cento anni più tardi, nel periodo tra le due guerre, veniva vista da tutto il mondo come una città affascinante ed eccessiva; quando si cresce troppo velocemente è difficile mantenere l’armonia ed è forse quello che si sta verificando anche ora, con i grattacieli che continuano a crescere (lo Shanghai World Financial Center, con 492 metri, è il più alto della Cina e il settimo il mondo ma sarà presto superato dalla Shanghai Tower, di cui in questo momento fervono i lavori conclusivi, con le gru vertiginosamente issate a 600 metri, che movimentano travi 24 ore su 24, e che raggiungerà l’ incredibile altezza di 632 metri, secondo al mondo) mentre nei vicoli di Puxi, la città vecchia, si continua a condurre una vita ai margini della civiltà, esaltando quel contrasto tra progresso e sperequazioni sociali che sembra essere la cifra distintiva del paese.

Nei ristoranti più raffinati, tra luci soffuse, lievi séparé e piatti, scodelle, ciotole e quant’altro prevede la dotazione del perfetto commensale cinese, sono presenti bottiglie di vino pregiato; ed il Nobile che ha campeggiato negli incontri istituzionali si è ampiamente dimostrato all’altezza dell’abbinamento con i sapori dolci della cucina di Shangai.

Anche questa città, che nella gerarchia amministrativa cinese ha il rango di provincia, porta con sé una storia lunga, complessa e affascinante: basti pensare che gli shangainesi continuano a chiamare alcune aree della città più vecchia con gli stessi nomi assegnati  dopo la metà dell’800 e così la sede dell’Enoteca Italiana – Yishang è nella “concessione francese” nella zona, cioè, in cui vigevano le leggi – con tanto di Polizia e Tribunali propri – dello stato transalpino al pari di quanto fu riconosciuto ad inglesi, americani e giapponesi .

Al centro, allungato proprio come un piccolo serpente, ovvero il cibo al quale anche i cinesi giovani e  acculturati attribuiscono l’esclusiva capacità di prolungare la giovinezza, si trova l’ammaliante Fenyang Road, l’epicentro della vita notturna di Shangai, il luogo dove, insieme all’elegante Caffè Roma, con i tavolini di bambù all’esterno ed una vetrina da far invidia alle migliori pasticcerie Capitoline, l’immancabile Starbucks, con le tazze adornate di dragoni e pagode, e una fumosissima Birreria Paulaner, in cui la più piccola porzione di carne è formate da due smisurate fette di cotoletta alla milanese e si suona e si balla dal vivo in un’atmosfera lasciva e conturbante, si trova anche la Mecca dei ravioli, il vivace ristorante Din Tai Fung, uno dei tanti della catena in continua espansione fondata da un imprenditore taiwanese, in cui questo piatto caratteristico della cucina cinese è interpretato con straordinaria abilità. Dopo essersi affacciata alla vetrata che mostra il bancone su cui, a velocità impensabile e con una perizia, sicuramente dovuta anche alla ripetitività del gesto, che sa quasi di meccanico (e quindi impressiona), per una sera la delegazione senese non ha avuto bisogno di evocare i pici (forse il termine più usato nella missione dopo Nobile e prima di taxi) e si è distinta nel consumo dei delicati fagottini di pasta sottilissima, quasi trasparente, che coprono un pasto completo, dal forte attacco con gamberi e maiale, alla chiusura con soia e castagne. Nessuna sorpresa al momento del conto: con pochi yuan (l’unità di misura del Renminbi, la divisa cinese, che vale poco più del 10 per cento dell’Euro) ci si sazia ampiamente e l’abitudine ad i gruppi di persone in viaggio d’affari rende facile ottenere ricevute differenziate, autentica croce di chi – in missione – deve rendicontare le proprie spese.

All’uscita dai locali gli uomini sono immancabilmente avvicinati da gentili p.r. (chiamiamole così…) che offrono massaggi e altre soluzioni per concludere la serata in stile shangaiano. L’approccio è garbato e sorridente ma, se i propri programmi sono altri, guai a dimostrarsi troppo cordiali: l’operatrice si incolla al potenziale utente e non lo molla con la speranza che l’ossessiva ripetizione dell’offerta provochi il collasso delle sue difese o un improvviso restyling dei propri progetti serali. Le promotrici, la cui discreta grazia pare che non sempre corrisponda a pari doti delle incaricate del servizio, hanno anche dimestichezza con le lingue: a chi scrive è bastato un semplice e timido “no”, pronunciato a mezza bocca, per far riconoscere la provenienza italiana ed essere avvolto da una cascata di parole “a tema” di cui l’unica riferibile in questa sede è, appunto, “massaggi”. Sempre all’autore di queste righe, sfuggito al fumo della suddetta Paulaner, è capitato di essere talmente circondato da dimostratrici da aver dovuto ripiegare in zona franca, appunto i tavolini esterni della birreria, ed attendere lì l’arrivo del resto del gruppo. Ma da quella posizione ha potuto osservare l’esodo di improbabili coppie, formate da corpulenti, caracollanti e per niente giovani europei, evidentemente storditi da alcool, fumo e atmosfera “sentimentale”, e slanciatissime pin-up orientali, avviate verso il logico (sic!) epilogo della serata. Già perché a mezzanotte, improvvisamente, le luci si spengono, si abbassano le saracinesche, il formicaio si placa e questa parte di Shangai, come in qualsiasi ciclo lavorativo, chiude un turno e si dedica a quello che richiede più discrezione e soprattutto, perché funzioni, che la clientela non sia distratta da altre attrazioni.

Ma non è questo, si badi bene, che rende Shangai, una città sensuale. Anzi, un così meccanico orientamento verso il prodotto “sesso” le nega fascino e forza seduttiva e induce ad osservare il fenomeno senza coinvolgimento, al pari di altri fatti.

No, Shanghai comincia ad essere sensuale quando finisce di lavorare, quando gli azzimati ed un po’ anacronistici business men (giovani e meno, cinesi ed europei) smettono i completi di grisaglia ed abbandonano le valigette di cuoio che portano attraversando frettolosamente le vie della città nuova e gli I-Pad; quando le ragazze escono dagli uffici o dall’università e si riversano verso loft di straordinario stile ed eleganza come l’italianissimo 10 Corso Como, posto all’estremo limite della celebre e interminabile Nanjing Road (un palazzo intero dedicato allo stile e alla cultura italiana, con mostre e cucina, che è stato sede di un promettente incontro per i produttori di Nobile) o verso il centro.

Allora questo autentico mondo prende a respirare con un altro ritmo, quello che risente della storica, forte presenza europea, quello che richiama appunto alla memoria dandies annoiati e decadenti che avevano consegnato la propria vita all’oppio, ai paradisi dell’oblio, che si riversavano all’ippodromo per assistere alle corse dei cavalli, fedele trasposizione nella lontanissima Cina delle abitudini della nobiltà europea alle quali, però, non sarebbero mai voluti tornare.

Il contrasto tra Vecchio Continente e Asia, con le rispettive tradizioni e culture, reso ancor più acuto e stridente dalla situazione attuale, in cui la Cina è forza trainante (e non risorsa da sfruttare) e si prepara ad effettuare clamorosi sorpassi. E’ la base di una formula magica dalla quale questa città – in cui si trovano 50.000 italiani come Paolo Lucioli, di Chiusi, incontrato dalla delegazione di Montepulciano, general manager della filiale del Monte dei Paschi che ha fondato otto anni fa e che ora conta su 18 dipendenti – esce trionfante con un carattere che forse pochi altri luoghi al mondo possono vantare.