Zeno Amatucci, Ho camminato la notte

Silvio Ciappi, L’uomo che non voleva morire, Gabrielli, Verona, 2017

“Ho camminato la notte” è un libro coraggioso, giusto, profetico. Coraggioso, perché affronta il tema dei migranti dall’Africa in Italia senza tacere l’ubiquità del cinismo e degli interessi economici che ruotano intorno a questa moderna tratta degli schiavi, che ognuno deplora e da cui molti traggono vantaggio. Giusto, perché rimarcare, come fa l’autore, Zeno Amatucci (Siena 1990), il fondo di egoismo e di aggressività che caratterizza l’uomo – ogni uomo – dimostra la parzialità di ogni manichea distinzione tra buoni e cattivi, tra anime belle e partigiani del Male: è la convenienza, più che il bene, a orientare la condotta del singolo. Profetico, infine, perché guarda al tramonto dell’Occidente come a un movimento destinale e irreversibile (“Sarà un sacrificio lento. L’Europa morirà con la morte dei suoi popoli e delle sue tradizioni”), che la mondializzazione e lo sviluppo della tecnica, ben lungi dall’arrestare, accelerano, nello stesso istante in cui sembrano cancellare ogni distanza, semplificare l’esistenza, alleggerire il lavoro manuale.

Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che la voce narrante appartiene a un uomo di colore, il quale, a seguito di un incidente connesso a un rito di passaggio della tarda adolescenza, decide di lasciare l’Africa, venire in Italia, militare in un partito politico di destra, appare evidente che lo scopo che Zeno Amatucci si prefigge non è certo quello di offrire un’ulteriore testimonianza delle conseguenze dello sradicamento del terzo millennio sul piano meramente sociale e culturale, bensì quello di aiutare il lettore a cogliere gli effetti che tale fenomeno comporta a livello di identità (individuale e collettiva) in colui che è ospitato, in colui che ospita. A me pare, infatti, che il vero motivo di fondo di “Ho camminato la notte” sia rappresentato proprio dall’identità, la quale non è mai un possesso stabile, dal momento che non è affatto un dato naturale (neppure i sentimenti lo sono), bensì è un dono sociale. Di conseguenza, mutando i valori che orientano e danno forma a una società, anche la personalità dei suoi singoli membri subisce delle trasformazioni, le quali, specie se rapide, determinano un acuto senso di disorientamento.

Non a caso, né il protagonista né Marianje (delizioso personaggio femminile) né Olufemi alla fine del romanzo sono più quelli che erano all’inizio. Ma non perché ci sia stata in loro una crescita, una maturazione, uno sviluppo. Semplicemente, non sono più quelli che erano un tempo, sono divenuti dei comuni consumatori, dei comuni aspiranti consumatori. Dunque, non sono niente (da qui il loro essere disorientati), perché il mercato non è la cultura, non è la storia: non costruisce identità, casomai le ruba: “Maranje non era più Marianje e ora mi sedeva davanti un’altra persona”. La retorica dei diritti, la perdita della nozione di obbligo, l’acritica celebrazione della libertà, l’allentarsi dei vincoli comunitari, il disconoscimento dei bisogni dell’anima, hanno finito col determinare un paesaggio umano uniforme e opaco, al cui interno i singoli attori, a prescindere dalla loro provenienza, appaiono confusi, incerti, insicuri. Su queste basi, è pensabile una pacifica convivenza e una reale integrazione? Il passo che segue, che costituisce l’incipit del romanzo, consente di cogliere anche la formazione dello scrittore, che col tempo è venuto affiancando agli interessi letterari lo studio delle scienze sociali e dell’antropologia.                     

“Le montagne nere esalavano nel cielo rosso i loro fumi incandescenti. Sentivo i piedi pesanti e mi sembrò che anche gli altri membri del gruppo di cacciatori fossero impacciati nei movimenti. Oggi capisco che non era il caldo a rendere il nostro cammino così difficoltoso. Una grande ansia albergava nei nostri cuori. Nella tribù, così come ora so accadere in molte parti del mondo, un’antica leggenda aveva generato una terribile tradizione. Si tramandava che in tempi lontani il dio della fertilità, la mia gente lo chiama Dukka, fosse sceso in terra e avesse addomesticato e posseduto una leonessa, fecondandola. Da quell’unione sarebbe nato il nostro capostipite. La leggenda, come dicevo, si era trasformata per noi in un’importante quanto scellerata tradizione. Coloro i quali non si erano accompagnati prima dell’età adulta, e quindi avevano conservato, almeno ufficialmente, la propria verginità, erano chiamati a compiere un rituale propiziatorio. Per prima cosa bisognava recarsi nella savana, in una precisa notte dell’estate africana”. 

 

Zeno Amatucci, Ho camminato la notte, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2019

 

a cura di Francesco Ricci