Vincenzo Coli, Secreti 2003/2020

Leggo Vincenzo Coli e mi viene in mente Giorgio Manganelli. Mi era accaduto di pensarlo già con la precedente opera di Vincenzo, “Falsi di gusto”, pubblicata nel 2015. Allora, però, avevo creduto che si trattasse di un episodio isolato, di una felice incursione, la sua, nei territori (molto frequentati) della letteratura come gioco, come menzogna, come artificio. Ora, però, il nuovo libro, “Secreti”, riunendo otto racconti che dagli inizi del terzo millennio conducono ai giorni nostri, mi consente di affermare che già quel volume esprimeva una consapevole e convinta poetica, alla base della quale c’era (e c’è) un fortissimo allentamento del legame che unisce l’opera letteraria alla realtà e il riconoscimento della centralità, nello scrivere, dell’operazione di montaggio-rimontaggio dei testi preesistenti, dei testi della tradizione.

Insomma, la fedeltà a se stesso a me pare una delle caratteristiche di fondo di Vincenzo non solo come uomo, ma anche come autore. Ad esempio, anche in “Secreti”, come già in “Falsi di gusto”, il pastiche di generi, di stili, e, soprattutto, di registri lessicali, possiede una sua assoluta centralità ed evidenza. Il dialetto milanese convive con l’italiano medio, il dialetto romagnolo col dialetto siciliano, la Bohème di Puccini con Pretty Woman, la lettera burocratica (con le sue forme convenzionali) con le effusioni emotive, l’argomentazione rigorosa con la chiacchiera, la sintassi paratattica, che procede talora per semplici giustapposizioni e con stile nominale (“Martedì. Interno giorno. Roma, Palazzo Chigi, ufficio del portavoce del Presidente del Consiglio”), con un periodare più ampio, ricco di subordinate (“Catané, siccome sogna in grande, questo calcolo scarso non l’ha riconosciuto, e nel diario s’è segnata l’altro, nu poco più largo e omologato il giorno di Santa Teresa, festa patronale con la processione, i fuochi d’artificio sul lungomare e le bancarelle cariche di dolci alla mandorla e torroni colorati”).

Inoltre, analogamente a “Falsi di gusto”, sono presenti anche in “Secreti” la passione elencatoria, che tutto livella e tutto priva di profondità storica, il gusto parodistico-grottesco, l’euforia dello scrivere, che tradisce il piacere dell’autore e preannuncia quello, auspicato, del lettore. Questa continuità stilistica è, a mio avviso, la spia di una continuità anche ideologica, la quale, sebbene affidata a un tono leggero e compiaciuto, è fondamentalmente amara. Infatti, se “Falsi di gusto” nasceva una volta che si era consumata la fine delle “grandi narrazioni” e che la mondializzazione aveva cominciato a dispiegare i suoi drammatici effetti, “Secreti” si colloca dopo la più grande rivoluzione concepita e promossa dall’uomo, vale a dire Internet, la tecnologia digitale, l’iPhone.

Chi ha fatto esperienza di entrambe – come me, come Vincenzo – sa bene che esse hanno finito col disegnare un paesaggio ben diverso da quello conosciuto e abitato in precedenza. Un mondo con meno validi legami e più labili link, meno tutele lavorative e più precariato, meno democrazia reale e più agorà virtuale, meno intellettuali e più esperti televisivi, meno solidarietà e più egoismo, meno corpi politici intermedi e più desiderio della personalità forte, meno indulgenza per l’errore e più odio. Dinanzi a questa realtà avvilente, stupida, violenta, Vincenzo Coli continua a tenere ben affilate le armi non già dell’invettiva feroce e diretta, bensì quelle raffinate e appuntite della più disincantata e divertita ironia. Il passo che segue è tratto dal racconto di apertura, “Romanamente Vostra”.          

“‘Dov’ l’è, orco can, dov l’è? Ieri c’era, cut venia un azident! L’ho ben veduto che c’era…’. L’uomo sacramenta piano e senza rabbia, in romagnolo stretto. Dalla pila ben ordinata di faldoni titolati a mano con l’inchiostro rosso ha sfilato una rivista e ora la sottopone alla curiosità mobilissima delle dita. La testata è cubitale e perentoria: Cinema. A giudicare da come i polpastrelli indugiano, toccare la carta sfibrata e povera di cellulosa deve procurargli una specie di piacere fisico. Scruta la foto di copertina. Un soldato in groppa a un dromedario, intorno cineprese, faretti e tutta l’attrezzatura da teatro di posa. Del lettore, calvo e imbronciato, s’indovina il capo massiccio, compresso nella divisa sahariana grigia e per metà nascosto da una grossa scrivania in legno di noce scuro. Cerca un’immagine precisa, o un articolo che per lui deve essere importante. Scorre le pagine fino all’ultima. Torna indietro, si ferma. A catturarne l’attenzione è il primo piano di una ragazza bruna e formosa, la cui avvenenza è accentuata dal taglio severo dell’abito. Ma quel che più colpisce è la luminosità sensuale del sorriso. Mediocre gioco di parole, la didascalia recita: “Stella Maris, stella radiosa del cinema italiano, nel nuovo film di Carlo Campogalliani “Non ingannarmi!”. ‘Mo’ ben che t’ho trovata…’ sospira di sollievo l’uomo. Alle sue spalle incombe un arazzo a carattere bucolico, a destra della scrivania un enorme mappamondo. Sulla sinistra due bandiere, le aste ficcate nel medesimo supporto: il tricolore sabaudo e un vessillo interamente nero.”

 

Vincenzo Coli, Secreti 2003/2020, Effigi, Arcidosso 2020

 

A cura di Francesco Laezza