Vincenzo Coli, Quando i cinema avevano la coda

Una volta Cristina Campo ha scritto che “si arriva a un punto nella vita nel quale non è più possibile parlare a lungo di sé. Ma è proprio necessario?”. Leggendo l’ultimo libro di Vincenzo Coli, “Quando i cinema avevano la coda”, mi è venuto da ripensare proprio a queste parole, le quali ora sembrano aiutare la comprensione dello scopo perseguito dallo scrittore senese col suo lavoro ora sembrano smentite, ignorate, apertamente contestate già dalla visibilissima presenza di un narratore interno che intrattiene un rapporto molto stretto con l’autore in carne e ossa. Per quanto concerne il primo aspetto, un aiuto e una conferma ci sono offerti dal sottotitolo: “Siena in Platea. Splendore e fine di un sogno popolare”. Non c’è traccia in esso, infatti, di una scrittura dal taglio marcatamente autobiografico, non c’è riferimento alcuno a memorie personali. Piuttosto, viene fornita un’indicazione che pare suggerire gli addentellati che “Quando i cinema avevano una coda” ha con il saggio storico e con il saggio sociologico. 

Per quanto riguarda, invece, il secondo aspetto, è sufficiente scorrere la pagina iniziale (“Mi sono innamorato del cinema a prima vista, una notte d’estate”) o la pagina conclusiva (“Ho perso tanti amici, purtroppo; li ho menzionati quasi tutti in questa storia”), per rendersi conto che non la letteratura, ma la vita in tutta la sua ruvida e splendida concretezza si accampa al centro del libro e lì, in un estremo tentativo di salvezza, di salvarsi, si fa trovare dal lettore. Personalmente sono convinto che l’incanto di “Quando i cinema avevano la coda” risieda proprio in questa ambivalenza di fondo, in questo, cioè, essere l’una e l’altra cosa. Non sorprende affatto, perciò, che, complice l’unità di tono della narrazione, che ha l’andamento dell’amabile conversazione tra amici (dove l’esposizione puntuale dei fatti convive con i sottintesi e con le allusioni), non priva, però, di increspature nostalgiche, con grande naturalezza si trascorra continuamente dall’io al noi, dal noi all’io, dove con “noi” si deve intendere tanto la storia locale quanto la storia nazionale e con “io”, naturalmente, la materia squisitamente autobiografica, amorevolmente scandita e accarezzata: la nascita, l’educazione familiare, gli studi, l’impegno politico, la professione, il matrimonio con Lina, la nascita dei figli Andrea e Claudio.  Non basterebbe, però, questa unità di tono a conferire coesione e unità a “Quando i cinema avevano la coda”, se non ci fosse la grande maestria di Vincenzo Coli in sede di “montaggio” del materiale. E il criterio dal quale l’autore si lascia condurre è l’individuazione di un unico filtro, di un’unica lente, di un unico schermo attraverso i quali osservare l’esistenza, l’esistenza del “noi”, l’esistenza dell’“io”. 

Tale filtro-lente-schermo è il cinema, è la storia del cinema, che non solo racconta le trasformazioni (sociali, politiche, culturali, economiche) di Siena e del nostro Paese nel corso dei decenni, ma dà conto anche dei cambiamenti intervenuti nell’immaginario e nella “visione del mondo” di ognuno di noi, e dunque anche in Vincenzo Coli: forse anche a lui il mondo non appare più oggi “quel posto meraviglioso e sorprendente”, che sentiva ancora di amare nei primi anni Novanta. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale intitolato “San Francesco, la luna e tu”. Il volume è arricchito da due contributi critici – il primo di Roberto Barzanti, il secondo di Duccio Balestracci –, entrambi di grandissimo valore.                    

“Mi sono innamorato del cinema a prima vista, una notte d’estate. Avevo cinque anni e, per quanto inesperto della vita, tre convinzioni radicate. La prima: sono figlio unico, ogni desiderio è un ordine, tutti ruotano come satelliti intorno a me, pianeta cucciolo. Un bacio al risveglio e tanta cura nell’abbigliarmi, di giorno la premura della pappa, di sera l’intera dolcezza del mondo in una ninnananna. Avvolto dal tepore del lettino, vedo i grandi affannarsi, divisi in generi. Uomini e donne, l’ho imparato presto. I ruoli, invece, me li hanno spiegati che ero appena nato, enfatizzando mimica e labiale: babbo, mamma, nonno, nonna, zio, zia. Servitori amorosi, parenti stretti. Troppo stretti, Perché a Siena, nelle case delle famiglie operaie di via del Comune, coabitare è la regola, nell’anno millenovecentocinquanta. Seconda convinzione. C’è un adulto che esce presto al mattino, rasato, pettinato e con la faccia seria. Prima di salutare tutti mi guarda intenerito e si china a carezzarmi. L’ho riconosciuto dall’atteggiamento: è il babbo. Si chiama Enrico, mi vuole molto bene ma non si sciala, forse controllare le emozioni fa parte del gioco. Dicono che appartenga al genere maschile: duro, deciso, immune da fragilità, ha diritto all’ultima parola. Tutto questo ne fa una persona autorevole. Il capofamiglia cui si deve ubbidienza. Ma non capisco perché va sempre via. Finché qualcuno mi impartisce la prima lezione di economia e finanza: è compito suo procurare i soldi necessari all’acquisto dei completini, dei formaggini e dei giocattoli. E allora penso: ok, mi sta bene, tanto c’è chi resta a casa. Convinzione numero tre. Chi resta a casa è un adulto minuscolo e allegro, affettuoso e sollecito. Carinerie da declinare al femminile. Infatti è una donna, si chiama Alva e ha funzione di mamma”

 

Vincenzo Coli, Quando i cinema avevano la coda, nuova immagine, Siena 2022

a cura di Francesco Ricci