Simona Adurno, Che non rimanga traccia

“Che non rimanga traccia” è un libro bellissimo e io faccio fatica a immaginare un posto, in cui può essere stato pensato e scritto, che non sia quella zona, tra la terra e il cielo, abitata dagli uccelli, dai folli, dai sognatori. Zona pericolosa (si può scivolare, cadere al suolo, non rialzarsi più), zona luminosa (restituisce a ogni vicenda il suo giusto peso, il suo giusto valore). La “spuma lieve di perla”, “i lampioni fiochi / e l’incipiente notte”, “la pallida cattedrale”, “le zampe lievi / di chi cammina adagio”, il “vento che porta un poco di Nord / a questo indolente meridione”, “la preghiera vibrante / e i singhiozzi dell’amore”, “la chioma dell’olmo / nell’orizzonte di lava”, “il vuoto nei locali / le strade ordinarie”, non sono i nostri incontri, non sono le presenze che accompagnano – o possono accompagnare – le nostre esistenze. Anche se tutti noi abbiamo avuto “una casa di passaggio”, siamo stati sorpresi dalla “dolcezza improvvisa” di un fiore, abbiamo avvertito “belle le nostre bocche e saldi / i nostri corpi”. Ma è stata vita, da estenuare o da bruciare, da maledire o da ringraziare. Nient’altro che vita, che ci siamo lasciati alle spalle, come fa la barca col mare, fino a quando la superficie dell’acqua ritorna perfettamente liscia, al punto da non saper dire se uno scafo l’abbia davvero solcata o se si sia trattato di un sogno del meriggio, bugiardo e seducente come un dongiovanni.

Quella “spuma”, quei “lampioni”, quella “cattedrale” ricordata in “Che non rimanga traccia”, invece, appartengono ai territori dell’arte, dove niente è lasciato indietro e niente si perde, né la scia di un’imbarcazione né il trasalimento di un cuore. Simona Adurno, seduta alla sua scrivania di vento e di stelle – tra la terra e il cielo, è lì che me la immagino – non ha visto semplicemente uomini e donne, genitori e figli, innamorati e traditori, albe incantate e gorghi di morte, ma ha colto il senso che questa opaca successione di episodi possiede.

Per lei, per il mondo. Niente di pacificante, niente di completamente rassicurante, sia chiaro. Perché la ferita aperta da un addio (proprio quell’addio) continua a sanguinare, perché non guarisce la piaga generata dal ripetersi dei congedi, che tagliano in due il cuore e avvelenano il sangue. E invecchiare è un dolore intollerabile per chi sempre è vissuto d’amore e di luce. Ma dinanzi, ad esempio, alla strofa conclusiva de “L’uomo alla finestra” (“Quel luogo che scorgi / oltre il reticolo stradale / sopra i lampioni fiochi / e l’incipiente notte / non si lascia toccare / vedi / se non ci lasciamo / cadere”), dove tutto è perfetto – metricamente, ritmicamente, poeticamente – , il lettore comprende che l’ordine e l’armonia di certe parole, come i versi de “Che non rimanga traccia”, riscattano e azzerano l’insensatezza dell’esistenza. La lirica che segue, intitolata “La promessa”, chiude meravigliosamente la raccolta di Simona Adurno.         

“A vivere il confine m’insegnasti

quello fra la parola e il gesto.

Io forse solo a prendere i baci

a raffica di vento

sulla fronte indifesa.

Non è brillata invano

quella voce

né svanirà la mia

ne sono certa fin

dentro l’oscuro midollo

di questi zoppi giorni.

Nessuno passa senza motivo

intere vite a porsi la domanda

cercare il nemico

evitare la condanna.

Ognuno affratellato

e stanco

troverà ristoro.

Se anche non è detto

il dove

solo dimenticato.

 

Simona Adurno, Che non rimanga traccia, Manni, Lecce 2019

 

a cura di Francesco Ricci