Piero Fabbrini, Un altro paradiso

Due immagini incorniciano “Un altro paradiso”, l’ultimo romanzo di Piero Fabbrini. In apertura abbiamo un vascello, che solca con lentezza le acque del mar Rosso (“Il piroscafo scivolava silenzioso sull’acqua spinto solo da una debole brezza”). In chiusura incontriamo un uomo, che con passo spedito si dirige all’abitazione della donna che ama (“Uscì quasi di corsa dal giornale, si fermò a una bancarella che vendeva fiori, comperò il mazzo di rose più grosso che c’era e si diresse a passo di corsa verso la casa di Delia”).

Un’imbarcazione, dunque, che richiama alla mente del lettore un altro celebre battello, “la Città di Montereau”, che compare nella pagina iniziale dell’ “Educazione sentimentale” di Gustave Flaubert (quasi a volerci suggerire da subito che è proprio il romanzo realista dell’Ottocento l’autentico termine di confronto per la narrativa di Piero Fabbrini), e un uomo come tanti, un uomo comune, che dopo avere preso parte alla guerra di Abissinia si trasferisce ad Ancona, dove abbraccia la professione di giornalista presso il “Corriere Adriatico”.  A unire le due immagini – quella del piroscafo, quella dell’uomo – c’è il movimento, ma è un tipo di movimento ben diverso: lento, placido, perfino ozioso nel primo caso, rapido, concitato, improvviso nel secondo caso. Ed è una diversità, questo è chiaro, che ben si spiega tenendo presenti i due contesti al cui interno le due azioni in questione – i due movimenti – si collocano, osservazione, questa, che può essere fatta, più in generale, a proposito dell’intera vicenda narrata in “Un altro paradiso”, la quale ha come protagonista Olmo Sperelli, nato nel 1867 nei dintorni di Castelnuovo Berardenga, e nella guerra di fine secolo in Africa orientale, conclusasi con la sconfitta di Adua, il suo cuore tematico. Una pagina dolorosa (e di cui c’è poco da andare fieri) della storia d’Italia, viene dunque dall’autore recuperata e ripercorsa con scrupolo documentario, senza però che sia mai soffocata l’invenzione artistica (in relazione a fatti, personaggi, ambienti), al punto che la definizione migliore del libro, per quanto attiene al genere e sottogenere, resta quella di “romanzo storico” (e torniamo così all’Ottocento).

Eppure, la contrapposizione tra le due immagini trascende, a mio avviso, il piano del semplice racconto (il contesto, il nesso causa-effetto, l’intreccio) e coinvolge quello del significato complessivo di “Un altro paradiso”, investe, cioè, quella che è la concezione della realtà dello scrittore. Lo si capisce, a lettura terminata, operando una inversione d’ordine tra l’incipit e l’explicit del romanzo. Il primo – il lento scivolare sull’acqua del piroscafo – esprime il punto di vista del narratore, il secondo – l’andatura veloce del giornalista – esprime il punto di vista di uno dei personaggi. Sguardo dall’alto, dunque, il primo, sguardo dall’interno, invece, il secondo. Ma sguardo su chi o su che cosa? Su un gesto, un’azione, un paesaggio, un movimento, un personaggio? Certamente. Ma soprattutto, ed è questo che intendo con “piano del significato complessivo”, sull’esistenza umana. La quale, finché è vissuta, viene percepita come una confusa e inarrestabile e rapida successione di eventi, di fratture, di perdite, di ritorni, di addii, di sconfitte, ed è già tanto se è possibile estrarre un senso dalla singola esperienza fatta; se, però, quella stessa esistenza viene osservata da lontano, con distacco, quando gli anni e il dolore ci hanno portato in dono (ma a quale prezzo!) la saggezza, allora ci pare come una vasta distesa unitaria, a dispetto del moto delle onde – come quella del mar Rosso –, nella quale l’acqua tersa e il fango, le creature viventi e le carcasse di animali morti che galleggiano, insomma, ciò che vi è di bello e ciò che vi è di più brutto, convivono, scorrendo l’uno accanto all’altro. E alla fine, sembra dirci l’autore, riconoscere che nella vita tutto si tiene, anche gli orrori della guerra e i frutti dolci della pace, è una delle poche certezze che all’uomo è dato conoscere e possedere. Il passo che segue è tratto dalla pagina iniziale del romanzo.   

“Il piroscafo scivolava silenzioso sull’acqua spinto solo da una debole brezza che a stento gonfiava tutte le sue vele. I motori erano stati spenti e nella notte la nave procedeva lasciando sul mare, incredibilmente piatto, una candida scia di spuma che una sottile falce di luna all’ultimo quarto illuminava appena. Era da quando avevano attraversato il canale di Suez ed erano entrati nel mar Rosso che, grazie a un vento costante, era stato possibile spengere le caldaie a carbone mantenendo comunque una velocità sufficiente a rispettare i tempi stabiliti per l’arrivo a Massaua della nave. L’Ignazio Florio, così si chiamava il piroscafo, faceva parte della flotta della Compagnia Generale di Navigazione che aveva ottenuto la commessa da parte dello stato italiano per il trasporto di truppe e rifornimenti destinati alla colonia che era stata da poco costituita in Eritrea. La nave, per limitare al massimo il consumo di carburante, sfruttava quando possibile la velatura e ormai procedeva da giorni spinta solo dalla forza del vento. Il grosso contingente che si trovava a bordo, troppo consistente rispetto alle cabine disponibili, era composto quasi esclusivamente da militari di leva estratti a sorte per essere destinati a passare il proprio periodo di servizio in Africa Orientale, poi c’erano alcuni giovani ufficiali di fresca nomina e anche un soldato semplice, unico volontario”

 

Piero Fabbrini, Un altro paradiso, Albatros, Roma 2022

a cura di Francesco Ricci