Paolo Goretti, L’amore oltre il muro

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C’è qualcosa di antico, qualcosa di epico nell’ultimo romanzo di Paolo Goretti, intitolato “L’amore oltre il muro”. Non è una questione di stile e tantomeno di tensione unitaria, che attraversa e impronta l’opera, facendo sì che ogni dettaglio – ogni particolare – rimandi all’insieme e dell’insieme parli. L’epicità di cui parlo è interamente legata al personaggio di Marco, del quale il narratore (esterno) racconta la giovinezza e la maturità (grosso modo, dai primi anni Quaranta agli inizi degli anni Settanta del Novecento), vissute tra l’Italia e Praga. Come accade al costruttore Solness, nell’omonimo dramma di Ibsen, anche alla porta di Marco un giorno la giovinezza viene a bussare, e lo fa sotto le sembianze di Marie, la ventenne che “vendeva cartoline e altre povere cose” a breve distanza dalla Sinagoga Pinkas. A quel richiamo – a quei colpi decisi delle nocche sul legno – Marco risponde, lasciando così che vada in mille pezzi l’edificio che fino ad allora ha costruito e difeso, il quale rinviene (rinveniva) nel lavoro, nella famiglia, nella morale, nella rispettabilità sociale, i materiali di cui è costruito (era costruito): terribile è la potenza di Dioniso e del dionisiaco.

Ma questo abbandonarsi alle seduzioni del vivere e dell’Eros non costituisce né l’approdo né il senso dell’esistenza del protagonista di “L’amore oltre il muro”. Marco non appartiene alla tipologia di eroe, di cui il romanzo novecentesco ci ha offerto numerosi esempi, che si abbandona al mare oscuro della vita, che disperde un po’ ovunque frammenti di sé, che giunge a scoprire, attraverso la propria esperienza, che non esiste nessuna continuità, né del soggetto conoscente né della realtà conosciuta, dal momento che tutto è frammento e nulla è unitario. Marco, infatti, non vuole abitare l’aperto. Dopo essersi lasciato alle spalle la vecchia vita, ne costruisce una nuova.

Lui abita il chiuso. Se distrugge, è per edificare. Marco vuole tornare a essere marito (compagno), vuole tornare a essere padre, vuole tornare a sentire l’affetto e la stima dei colleghi di lavoro, nelle stanze di quella banca, in quella città. Da questo punto di vista, l’epilogo del romanzo, con la scena corale nella sala del reparto di maternità dell’ospedale di Siena (“Marie guardò quei visi schiacciati al vetro e sorrise”), non è una fotografia scattata semplicemente sul “mondo nuovo” di Marco, bensì sul “mondo nuovo” e sul “mondo vecchio”, su parte del suo “mondo vecchio”. Ciò che è stato – è questa l’epicità del personaggio di Marco – non va in lui perduto. Il ritorno a casa – la metafora della propria identità come una casa – ha luogo, si verifica. Paolo Goretti mostra di credere che sia possibile una sintesi, grazie alla quale ogni individuo diviene in modo ancora più intenso se stesso. Nonostante gli strappi, i sommovimenti, le cesure del vivere, noi non diventiamo mai stranieri a noi stessi. Almeno Marco non lo diventa: a conclusione del romanzo, lui è, ma a un livello infinitamente più alto e consapevole, ciò che già all’inizio desiderava essere, sentiva di essere. Il passo che segue è tratto dal primo capitolo. Il libro è impreziosito da una puntuale e accurata prefazione di Vinicio Serino.                  

“Marzo era appena iniziato ma faceva ancora freddo, quasi che l’inverno avesse deciso di attardarsi ancora per un po’ fra i tetti di cotto di quella vecchia città. Marco si fermò davanti all’edicola. Il giornalaio, con la sigaretta stretta fra le labbra e la solita tosse stizzosa, si affacciò alla finestrella con il suo volto scavato salutandolo con un gesto rispettoso della testa. Gli porse i giornali piegati l’uno dentro l’altro; uno era il suo quotidiano preferito e l’altro un giornale specializzato, indispensabile per il lavoro. Lui ringraziò e si avviò verso la grande porta di ferro della Banca. Da quando era stato chiamato a Siena alla Direzione Centrale, quell’incarico impegnativo non gli lasciava molto tempo da dedicare alla lettura; spesso era costretto a portarsi a casa pratiche di lavoro da terminare con urgenza. Qualche articolo interessante riusciva, però, a trovare il tempo di leggerlo. Ancora non aveva completamente metabolizzato quella prestigiosa promozione che lo poneva alla pari di qualche collega, appena un gradino sotto il Direttore Generale. Sapeva benissimo che nella sua assegnazione a quel ruolo importante c’era stato “lo zampino” del vecchio amico, ora appunto Direttore Generale, ma all’inizio non era certo se Francesco lo avesse fatto per semplice amicizia oppure perché veramente credeva in lui. Quel dubbio lo aveva a lungo infastidito e ogni tanto s’infilava nei suoi pensieri un passo de I miserabili di Victor Hugo che lo faceva riflettere: ‘È una cosa ben schifosa il successo. La sua falsa somiglianza con il merito inganna gli uomini’.”

 

Paolo Goretti, L’amore oltre il muro, Betti, Siena 2020

a cura di Francesco Ricci

foto di Francesco Laezza