Michela Di Renzo, I giorni del Palio e altri racconti

“I giorni del Palio e altri racconti” è un titolo che rischia di trarre in inganno il lettore. La bellissima copertina di Inge Lise Rasmussen che ritrae Siena, il riferimento ai giorni della nostra Festa, la scelta di adottare una dimensione dei caratteri della scrittura diversa per “I giorni del Palio” (dimensione maggiore) e per “altri racconti” (dimensione inferiore), infatti, possono indurre a ritenere che il libro di Michela Di Renzo si collochi all’interno di quel regionalismo descrittivo – così poco caro a Italo Calvino – che è attento a riprodurre gli usi locali e i tratti tipici di questa o quella città o popolazione.

Impressione del tutto sbagliata. In primo luogo, perché i riferimenti alla Festa, eccezion fatta per il racconto posto in apertura, sono sporadici, di scorcio, mai significativi. In secondo luogo, perché Siena è certamente presente e riconoscibile in molte di queste storie (“minacciò il suicidio buttandosi dalla Torre del Mangia”, “l’aria buona della Fortezza o di Piazza del Campo”, “il Vicolo delle Carrozze”, “Ai Quattro Cantoni”, “la casa in San Prospero”, “Negli ultimi anni si faceva vedere nella Lupa”), ma resta sempre sullo sfondo, al punto che le vicende narrate noi non facciamo fatica a immaginare che si svolgano – o che possano svolgersi –  in un’altra città, in un’altra provincia. Non è un caso che il dialogo sotterraneo più fecondo che Michela Di Renzo intrattiene a livello di modelli letterari, non è certo quello con la nostra tradizione regionale, bensì quello che rimanda ai grandi narratori russi dell’Ottocento: penso, ad esempio, a “la corsia n. 6” di Anton Čechov per “La stanza numero 40” e a “Il naso” di Nicolaj Gogol’ per “Cyrano”. Dunque, ciò che l’autrice intende offrire al lettore con queste godibilissime venti storie è ciò che l’esperienza (di donna, di medico, di lettrice) le ha insegnato, vale a dire che la vita si lascia vivere e raccontare, ma mai comprendere del tutto. Sbaglia, di conseguenza, chi ha la pretesa di racchiuderla in una formula o in una definizione.

Piuttosto, scrivere equivale a coltivare in sé e negli altri l’illusione che si possa tenere sotto controllo – attraverso lo stile, la costruzione della frase, la connessione dei fatti e dei periodi – ciò che si sottrae al nostro intendimento, perché senza logica, perché senza senso né trasparenza. Ecco allora che quello che pare un amore profondissimo si rivela una parte ben recitata (“Tata Bice”), la generosità e l’altruismo capovolgono le aspettative più cupe (“La conciatura”), il pregiudizio sociale ora risulta una pietra tombale posta sui rapporti umani (“Loro due”) ora si ritrae per fare posto a un sentimento di autentica compassione (“Male assortite”), la sorte ama ricongiungere dopo anni due persone, donando loro l’illusione di un avvenire insieme, per poi separarle per sempre dopo pochi giorni (“Il mutuo”), mentre certe amicizie vincono il tempo e indebite intrusioni (“Il mare d’estate”). Sono cose che accadono, sono cose accadute. La verità non si lascia riconoscere nella bontà o nella cattiveria, nella felicità o nel dolore; piuttosto, essa è sempre ambivalente, abbraccia l’uno e l’altro termine dell’antitesi. Di conseguenza, può chiamarsi sapiente lo scrittore che chiede alla sua opera non di spiegare la vita, ma di raccontarla, consentendo alle persone di riconoscerla a volte come la propria ordinaria vita e di sentirsi, così, meno soli, meno irrelati. Il passo che segue è tratto dal racconto di apertura, “I giorni del Palio”.              

“Quell’estate le temperature del mese di luglio erano insolitamente fresche. “Mi toccherà portarmi dietro un maglione a maniche lunghe stasera” pensò Laura guardandosi allo specchio. Era un vero peccato perché il vestito di cotone nero abbondantemente scollato era più sexy indossato senza niente sopra, ma per le strade di Siena in quei giorni soffiava una fastidiosa tramontana. “Anche se ho messo su qualche chilo, le gambe e il seno non sono ancora da buttare” borbottò davanti allo specchio, stringendosi in vita una cintura la cui borchia dorata avrebbe dovuto coprire la pancetta. Si pettinò i capelli a testa in giù in modo da renderli più voluminosi e si passò il rossetto rosso ciliegia sulle labbra, dopo averne disegnato il contorno con la matita per renderle più carnose. Aveva proprio ragione l’estetista: usando una tinta opaca e non il solito lucidalabbra le piccole rughe che erano comparse recentemente agli angoli della bocca erano meno evidenti. Poi ritoccò l’ombretto sulle palpebre perché fosse più luminoso e allungò le ciglia con un’altra mano di mascara. “Devo ricordarmi di non stringere troppo gli occhi, altrimenti mi vengono le zampe di gallina” pensò mentre si specchiava un’ultima volta”.

Michela Di Renzo, I giorni del Palio e altri racconti, Betti, Siena 2020

a cura di Francesco Ricci