Massimo Granchi, Se/dici

unesco-valdorcia

C’è del minimalismo voluto ed esibito negli incipit dei racconti di Massimo Granchi. Tranne pochissimi casi, infatti, i singoli testi che compongono “Se/dici” si fanno incontro al lettore ostentando essenzialità e brevità: “Ho aiutato i miei figli che si preparavano a uscire”, “Zia Carmela è anziana e corpulenta”, “In estate fa molto caldo”, “Novembre è trascorso velocemente”, “L’aurora schiariva i profili dei palazzi”, “’Ragazzino! Lanciami la palla’, mi urlò”. Quasi a voler suggerire, fin da subito, che nulla di superfluo o di accessorio può trovare posto tra queste pagine, in queste pagine. Inoltre, un secondo elemento che colpisce di “Se/dici” è la vastità posseduta dall’area semantica del “ricordo”, del “ricordare”, oltre che dalla sapiente dialettica verbale destinata a tracciare esatte linee di demarcazione non soltanto tra il presente e il futuro o il presente e il passato, ma anche all’interno dello stesso piano del “praeteritum tempus” (passato prossimo, passato remoto, trapassato prossimo). Infine, di grande rilievo appare anche un terzo elemento, al secondo strettamente connesso, costituito dalla costante presenza sulla scena o di personaggi di età differente (adolescenti, giovani, donne e uomini maturi, anziani) o di un personaggio del quale di scorcio sono narrati momenti diversi e tra di loro lontani dell’esistenza.

Nel primo caso, però, quando, cioè, a interagire sono uomini e donne di età differente, non tutti sembrano possedere la stessa importanza dal punto di vista del significato complessivo del racconto. Intendo dire che la figura dell’anziano ha un rilievo che né quella dei giovani né quella delle persone di una certa età mostrano. Non si tratta, naturalmente, di un giudizio estetico. Non intendo affatto affermare, cioè, che Carmela e Ulderico siano artisticamente più riusciti di Mauro o Teodoro. Massimo Granchi, infatti, sa sempre dare vita, nonostante la misura contenuta del racconto, a personaggi credibili, verosimili, riconoscibili.

Carmela e a Ulderico (i “senes”), però, e non Mauro, non Teodoro, sono portatori anche di un messaggio, nel quale a me pare consistere il senso del libro. E qual è questo messaggio? Non è un insegnamento, non è un paradigma di condotta, né pratico né etico. È una constatazione, è il risultato di un’osservazione attenta, prolungata, affettuosa, è l’esperienza di vita dello stesso autore, che gli rivela che soltanto in punto di morte o in prossimità della morte, quando il “tempus” (il tempo) possiede ormai l’aspetto del “praeteritum tempus” (del tempo trascorso), è possibile, perfino doveroso, esprimere un giudizio sull’esistenza, la quale, a quel punto, si rivela a ciascuno per quello che è: una esistenza mancata. E può dirsi fortunato chi ha ancora accanto a sé una persona che lo ama, e che con lui calpesta quotidianamente la strada ingombra di speranze deluse e di progetti mai realizzati. Il passo che segue è tratto dal racconto si apertura, intitolato “Buon compleanno. Minestra di pane”.           

“Ho aiutato i miei figli che si preparavano a uscire. Ho cercato nei loro occhi la ragione che mi ha allontanato da mio padre per molti anni. Ho indugiato su di loro come se dovessero svelarmi il motivo di tanta trascuratezza. Perché è successo? Non è il mio unico interrogativo. Ce ne sarebbero molti altri cui vorrei rispondere, ma sono confuso e stanco. Mi sono accorto di avere tenuto un piglio rigido troppo a lungo. Perché a un certo punto i miei ragazzi hanno arricciato le sopracciglia presagendo i miei pensieri. Non è mia abitudine guardarli in quel modo. Io li riempio sempre di attenzioni amorevoli senza oppressione, ma ero sofferente di un male gretto e totale e provavo un dolore fisico. “Babbo?”, mi hanno detto per scuotermi e ho ricordato di avere aria nei polmoni. Così ho respirato. L’ho rigettata e quasi mi saliva il pianto rimasto aggrappato alla gola. Che idiota! L’ho ricacciata dentro senza dargli sfogo, come facevo da bambino nei momenti d’impotenza, e mi sono spaventato all’idea di essere un adulto. Ho intercettato mia moglie. Come un’infermiera discreta, si muoveva nella stanza, mi porgeva le calze, le scarpe e il portafoglio. L’ho vista solo all’ultimo momento. L’ho abbracciata per ancorarmi a un porto sicuro. Ho visto la luce dei suoi occhi come fossero un faro in uno spazio buio”. 

Massimo Granchi, Se/dici, Arkadia, Cagliari 2022

a cura di Francesco Ricci