Margherita Fontani, Una famiglia in due secoli di vita

“Una famiglia in due secoli di vita” di Margherita Fontani è una lettura che i più giovani dovrebbero fare. Anche se al centro del libro compare una famiglia come ce ne sono e ce ne sono state tante (i Lucchesi), seguita con infinito amore nel succedersi delle generazioni (a partire dagli ultimi anni del Settecento), negli spostamenti (nel Chianti), nei tanti momenti di gioia e di dolore.

Anche se in queste pagine non trovano spazio l’evento straordinario, il gesto eroico, la personalità eccezionale. Eppure, nonostante questa “normalità quotidiana”, la lettura di questo delizioso e breve “romanzo tribale” – è così che lo avrebbe definito Cesare Garboli – non solo può risultare piacevole per i nostri giovani, ma anche utile e auspicabile. Chi, infatti, è nato dopo il 1999, è completamente privo di profondità storica.

Vive in un presente assoluto, nel quale le informazioni che continuamente lo raggiungono (sullo smartphone) si mostrano per lo più sotto forma di immagini, e dove la durata di ogni cosa viene a coincidere con quella di un prodotto, che viene acquistato, usato, gettato via ancora funzionante (l’economia consumistica si alimenta del ricambio delle merci), sostituito col nuovo modello che la pubblicità dichiara indispensabile.  Ecco allora che confrontarsi con “Una famiglia in due secoli di vita” può tanto restituire la percezione del tempo come durata e continuità quanto rivelare che il nostro stile di vita attuale non è l’unico stile di vita possibile. Lo dico senza nessuna nostalgia per un’epoca remota, che sapeva essere anche ingiusta e violenta.

Però sono anche convinto che non possono essere il benessere materiale e lo sviluppo tecnologico a misurare la felicità di una persona, specie se questa è quasi completamente avulsa – come accade oggi – da una rete di legami significativi e validi.  Il libro di Margherita Fontani serve a ricordare ai più giovani che c’è stato anche un tempo, fatto di sudore, malattie, morti in tenera età, raccolti magri, che è stato, però, anche un tempo in cui la parola solitudine ha raccontato solamente una parte della verità relativa all’esistenza di uomini e donne, anche qui, nella nostra amata campagna senese.

A controbilanciarla, spesso a neutralizzarla, infatti, ci sono stati la condivisione, il senso di appartenenza a una famiglia e a una comunità, la percezione di sé come un segmento di linea, non come un frammento irrelato. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale.   

“Francesco Girolamo Lucchesi naque a Vignano il 21-4-1824. La sua mamma si chiamava Annunziata Raveggi e il suo babbo Domenico lucchesi, ambedue nati in date imprecisate degli ultimi anni del 1700. Quando nacque Francesco Girolamo, detto Cecchino, nella famiglia c’erano già le sue sorelle, Clementina, che aveva quattro anni e Violante Anna che ne aveva due. Ma la prole nella famiglia non finiva qui, perché lo zio Federico aveva Giovan Domenico, nato nel 1821 ed Emilia Maria, nata nel 1822. Per l’esattezza nel 1828 e in seguito, i Lucchesi avevano nove bambini in casa perché Federico, rimasto vedovo con due creature piccole, dopo pochi mesi sposò Violante Filippini e con lei ebbe, nel 1825, una femmina, Emilia Agnese. Nel 1827 ebbe un altro maschio, che con la solita fantasia chiamò Antonio Domenico, in rispetto del nonno. Nel frattempo Francesco e Annunziata avevano avuto ancora una femmina, Regina Maria angela nel 1826 e infine un altro maschio, Antonio Sabbatino morto nel 1828. Questa numerosa famiglia di contadini viveva in un podere di Vignano delle Masse di Siena, nel Terzo di San Martino, cioè a un paio di chilometri dalla città. Il nostro Cecchino appena nato era uno scricciolo smunto e gracile, non florido come erano state le due sorelle e la mamma Annunziata temeva che non sarebbe sopravvissuto”

A cura di Francesco Ricci