Marco Vichi, Nel più bel sogno

Marco Vichi, Nel più bel sogno, Milano, Guanda 2017

Romanzo sloga-polsi, romanzo di seicento pagine, romanzo in cui le descrizioni d’ambiente occupano un posto di grande rilievo. No, l’ultimo libro di Marco Vichi, “Nel più bel sogno” (il titolo proviene da una canzone di Don Backy), non può essere liquidato sbrigativamente come un semplice libro noir. Nonostante il protagonista sia un commissario, il commissario Bordelli, coadiuvato nelle indagini dal fido Piras, nonostante vi siano tre casi giudiziari da risolvere – l’omicidio di chi un tempo aveva aderito alla Repubblica sociale di Salò, di un agente di borsa, di una giovane ragazza – nonostante la tensione che tiene desta ad ogni pagina l’attenzione del lettore. No, “Nel più bel sogno” è anche molto altro, molto di più. Innanzitutto è anche un romanzo sociale, per la sapiente ricostruzione dell’aria che si respirava a Firenze e in Italia alla vigilia del Sessantotto. Poi è anche un romanzo di memorie, se è vero che una delle aree semantiche verbali più sollecitata è quella inerente al ricordare, a partire già dall’incipit.

D’altra parte, i cinquantotto anni del commissario Borselli sono un’età di consuntivi – gli mancano solamente due anni alla pensione – e senza fare i conti col passato ogni consuntivo è destinato ad essere parziale, inconcludente, bugiardo. Inoltre, è anche un romanzo introspettivo, nel quale all’inchiesta investigativa si affianca una seconda inchiesta, forse perfino più importante, che è quella che il protagonista conduce nelle profondità del proprio io, al fine di rinvenire un senso a quanto ha fatto, ha quanto ha compiuto nel suo passaggio terreno. Da ultimo, “Nel più bel sogno” è anche un romanzo postmoderno, vale a dire un romanzo che esibisce, sebbene con discrezione e leggerezza, il rimando ad altre opere letterarie ed artistiche, di genere alto e di genere basso, e che contiene, nei capitoli 32 e 80 due fondamentali dichiarazioni di poetica di Bordelli-Vichi: “E nei romanzi qualcosa di universale doveva esserci, se scrittori vissuti in altre epoche e in altri luoghi del mondo continuavano a suscitare emozioni con le loro storie”. Il brano che segue costituisce l’incipit dell’opera e già mostra il rilievo che possiedono la descrizione d’ambiente (alla Zola) e l’attenzione alla dimensione interiore del personaggio.

“Impruneta, lunedì 29 aprile 1968. Il silenzio della campagna, la solitudine, la grande casa in penombra con le piccole finestre contadine che facevano passare poca luce… Tutto questo non impedì a Bordelli di sentire sotto la pelle il fremito della primavera. Gli capitava tutti gli anni, all’improvviso, e ogni volta era una sorpresa. Non succedeva mai nello stesso periodo. A volte gli era capitato addirittura alla fine di febbraio, altre volte i primi di maggio. Non c’era nessuna regola, come succedeva per le cose più belle. Quella mattina all’alba aveva sentito la primavera mentre riempiva la caffettiera, e aveva sorriso come se avesse ritrovato un vecchio amico. Era un brivido leggerissimo, investiva il corpo ma anche l’anima e la mente. Senza alcun motivo suscitava la irrazionale sensazione che la vita riservasse mitiche avventure, e regalava un senso di leggerezza che dava sollievo allo spirito. Bene, adesso era pronto ad affrontare altri giorni, altre settimane, altri lunghi anni. Era in cucina, in piedi davanti ai fornelli, e stava aspettando che il caffè salisse nella caffettiera. Pensò ai fardelli del passato, e sentì che gli stavano scivolando giù dalle spalle. Nella sua coscienza si agitavano ancora dei fantasmi, ma adesso erano diventati cari compagni di viaggio”

 

Marco Vichi, Nel più bel sogno, Milano, Guanda 2017

 

a cura di Francesco Ricci