Luisa Patta, Umane traiettorie

Entro la misura del racconto breve, talora brevissimo, Luisa Patta si muove con sapiente disinvoltura, come mostra il suo ultimo libro “Umane traiettorie”. A cambiare può essere il narratore (in dieci casi è esterno, in sette casi è interno, ora distante ora vicino all’autore in carne e ossa, mai, comunque, sovrapponibile), ma identica appare la capacità di raccontare una storia che possiede per il lettore i tratti della familiarità, del conosciuto, del noto. La maggior parte dei racconti, infatti, si presentano come frammenti di una grande narrazione al cui interno ciascuno di noi si trova e, quindi, anche si ritrova. Una narrazione sicuramente ambivalente, dal momento che inerisce all’ambito esistenziale non meno che a quello storico-sociale. Certo, quest’ultimo è quello che a prima vista si offre al lettore con maggiore nitidezza ed evidenza, rendendo i diciassette racconti come altrettanti pagine tratte dalla quotidianità del terzo millennio. Eppure, a mio avviso, non meno significativo e importante risulta il riferimento a tematiche legate al senso del nostro esistere, ai modi e alle ragioni del nostro essere-nel-mondo.

La famiglia contemporanea come luogo dell’inautenticità e dell’incomunicabilità, l’invadenza delle nuove tecnologie digitali, la violenza contro le donne, il carcere che punisce e poco rieduca, la depressione, il lavoro precario, la malattia psichica sono alcuni dei principali nuclei tematici di “Umane traiettorie”. Ma accanto a questi possiedono assoluto rilievo il senso di solitudine, la colpa, il perdono, l’ambiguità della memoria che ora lenisce il dolore ora tormenta chi ha perduto una persona cara. Insomma, le grandi questioni dell’uomo di oggi non meno che dell’uomo di ieri, le quali rendono la letteratura, come ha scritto in “Dall’esilio” Iosif Brodskij, una grande “dizionario, un compendio di significati per questo o quel destino umano, per questa o quella esperienza”. E il passaggio da un ambito all’altro, vale a dire dal piano storico-sociale al piano propriamente esistenziale, avviene con grande naturalezza, poiché i personaggi dei diversi racconti hanno un atteggiamento fondamentalmente riflessivo, che finisce con l’accumunarli. Loro la vita, in sostanza, non si limitano a viverla, ma la osservano e la interrogano. Ciò, ovviamente, e la grande letteratura novecentesca è lì a ricordarcelo, non è affatto garanzia di potere rinvenire sempre e comunque una risposta alle domande che ci poniamo e poniamo, ma ci preserva, in ogni caso, dal subire l’esistenza passivamente, quasi che non fosse cosa nostra, che non ci appartenesse. Sotto questo aspetto, il padre del piccolo Pietro (“Gioco di squadra”), Ester e David (“Due solitudini”), il protagonista di “Evasione” e la protagonista di “Il vecchio appuntamento”, Clara (“La banda del paese”), Matteo (“Aquemini”) sono in questo tutte creature sorelle, come lo sono nel non voler rinunciare mai all’amare e all’essere amati. Il passo che segue è tratto da “Storia di G.”, il testo di apertura.                      

“Giada chiuse di colpo il libro e lo appoggiò sul comodino. Non era stata una buona idea dire di no a Irene, a quest’ora sarebbe stata lei a provare rossetti e abiti dal suo enorme armadio e ad aspettare l’arrivo rombante dei ragazzi, con la loro scia di fumo e primi dopobarba sottocosto. Non è mai un luogo sicuro la propria stanza, dopo aver discusso per l’ennesima volta con tua madre per il solito motivo. Dalla cucina arrivavano i suoi sbuffi e i suoi rumori molesti, che produceva muovendosi sgarbatamente e sbattendo sportelli, come a fomentare un litigio che non aveva più voce. Giada attraversò svelta il corridoio, prese l’impermeabile e sparì dietro la porta, trattenendo il respiro per non portarsi dietro l’odore di soffritto che veniva dalla cucina. Non le piaceva uscire con la pioggia, ma non poteva restare. Alzò il cappuccio e andò verso il fitto del bosco, nella campagna dietro casa. Schiacciava foglie sotto le scarpe come schiacciava parole nella testa. Non capiva sua madre, non capiva quell’ostinazione nel voler calcolare e criticare tutti i suoi tempi, tutte le sue decisioni, tutti i suoi slanci di vita. Giada era sempre stata una brava bambina, ora una brava ragazza. Sensibile, intelligente, ragionevole. Mai sopra le righe, mai scomoda, mai avventata. I quindici anni le erano arrivati addosso come un treno in corsa, con le loro scosse e i loro tumulti. Giada li respirava a pieni polmoni, con la grazia di quell’età, incomprensibile e ribelle”.

Luisa Patta, Umane traiettorie, Book Tribu 2022

a cura di Francesco Ricci