Luciano Valentini, La vertigine

“La vertigine”, il romanzo di Luciano Valentini appena pubblicato da Betti, è un libro che sfida le mode, che si pone al di là e – oserei dire – contro ogni idea di moda letteraria. Non ha uguali nell’attuale panorama italiano, non vuole averne. Non è questione di snobismo e neppure di presunzione. Chi conosce lo scrittore, sa che tali atteggiamenti nulla hanno a che fare con l’uomo Valentini ancor prima che con l’autore Valentini. No, l’assoluta estraneità della “Vertigine” a ciò che in Italia viene pensato, composto, pubblicato – per quanto concerne il genere del romanzo – è la conseguenza diretta di una strenua fedeltà a se stesso, che fa scivolare nella più completa insignificanza concetti come facile successo, numeroso pubblico, estrema e coinvolgente leggibilità.

D’altra parte, la scrittura è sempre stata, per Valentini, uno strumento di conoscenza. Salvaguardata la distanza che separa la voce narrante (Bernardo Trappolini) dall’autore in carne e ossa, resta il fatto che l’attitudine introspettiva del secondo è la condizione preliminare e indispensabile perché “La vertigine” si offra al lettore per quello che è, vale a dire una discesa nelle profondità dell’io. E cosa rinviene dentro di sé il protagonista? Da chi e da che cosa sono occupati i sotterranei della sua anima? Quali crepe, faglie, moti tellurici scuotono il sottosuolo della sua mente? Il paesaggio interiore di Bernardo Trappolini è un paesaggio invernale, spoglio, gelido. Non ci sono alberi in fiore, non ci sono colline baciate dal sole. A definirlo, piuttosto, concorrono l’atonia sentimentale, l’inerzia, la rassegnazione.

Neppure i ricordi vi mettono radici, per una naturale difesa del soggetto: che senso ha, infatti, gettare lo sguardo sulla propria infanzia o adolescenza o prima giovinezza, quando lo spettacolo che si para dinanzi è fatto di dolori, delusioni, fallimenti? La fissità sul presente e del presente è una sorta di autodifesa, che preserva il protagonista dal male legato al rammemorare e dall’angoscia del progettare. Nell’esistenza di Bernardo Trappolini, infatti, non c’è niente da salvare: la noia e la sofferenza di ieri suggeriscono già la materia di cui saranno fatte le ore di domani.

Forse ad altri uomini toccano in sorte vite diverse e diversa, di conseguenza, è la loro percezione sia delle piccole storie comuni sia della grande Storia. Quello che, invece, Trappolini sa, è quello che ha direttamente visto e meditato: ovunque è disordine, ateleologia, nausea. Questa sua conoscenza è anche la sua ricchezza, di cui vorrebbe far dono a chi lo circonda. Ma ciò è impossibile, perché il dialogo con la fidanzata, coi parenti, con gli amici, è un dialogo tra sordi. Se anche comunicano, i personaggi della “Vertigine” sono destinati a non comprendersi: le sole parole che non vanno smarrite, sono le parole che ciascuno rivolge a se stesso. Eppure, nonostante la disperazione che attraversa il romanzo, una disperazione talmente forte che a volte pare di sentirla appiccicata sulla pagina mentre la si volta, “La vertigine”, per quel mistero che è proprio dell’arte e solo dell’arte, affascina, cattura, innamora il lettore, dimostrando che nella bellezza sanno celarsi l’autentico riscatto e il risarcimento delle offese che la vita arreca. Il passo che segue è tratto dal Prologo.           

          

“Mi chiamo Bernardo Trappolini e parlo solamente con me stesso perché sono un poeta. In tale maniera mi do sempre ragione e ciò mi consola, anzi, mi rende addirittura felice, perché nella vita reale nessuno mi ha mai preso in considerazione. Talvolta mi dico: “Amico, non pensare troppo ai tuoi casi personali, ma alla bellezza della varietà del mondo, in cui i tuoi casi rientrano. Disperati non serve, anzi peggiora la tua situazione”. Questo pensiero mi conforta e soltanto così riesco ad affrontare la vita come un piccolo eroe che lotta contro una valanga di sventure. In verità, sono un incapace, in fallito sotto tutti i punti di vista: ed è per tale motivo che mi rifugio nel mio mondo interiore, distaccandomi dalla realtà che mi angoscia. Sono un poeta quindi, poiché la poesia è un mondo fatto di buoni sentimenti, di dolci emozioni, tutto l’opposto della realtà che vivo ogni giorno, che è dura e pesante e che non è contenuta nelle illusioni dei poeti. Tuttavia, sono un incapace, un fallito che pensa e che quindi parla, anche se nessuno mi vuole ascoltare, perché il pensiero si esprime sempre in un linguaggio o meglio in un codice comunicativo non necessariamente linguistico. Ma se nessuno mi vuole ascoltare, a chi comunico i miei pensieri? La risposta è semplice: a me stesso. E ciò è giusto, oltre che inevitabile, poiché è soltanto all’interno di me stesso che mi è possibile mettere in luce, almeno parzialmente, la complessità contraddittoria della mia esistenza”.

 

Luciano Valentini, La vertigine, Betti, Siena 2020

a cura di Francesco Ricci