Idilio Dell’Era, Il libro dei segni celesti

Se oggi dovessi riscrivere “Il Nulla e la luce”, il mio saggio-antologia dedicato alla poesia italiana del Novecento, uscito nell’oramai lontano 2002, sicuramente tra gli autori meritevoli di spazio e di attenzione ci sarebbe anche Idilio Dell’Era. Gli studi di Alfredo Franchi e Fausto Landi prima, di Francesco Rossi poi, hanno avuto, infatti, il merito non solo di richiamare l’attenzione del pubblico e della critica su un poeta a torto trascurato, ma anche quello di evidenziarne la reale fisionomia, a definire la quale concorrono principalmente due elementi: la fedeltà alla lezione dei classici e la coerenza ideologica. Fedeltà alla lezione dei classici significa chiarezza espressiva, equilibrio formale, lessico selezionato, cui si accompagna, in molti testi, un dialogo, suggerito più che esibito, con gli “auctores” di riferimento (da Dante a Petrarca, da Leopardi a Carducci, da Pascoli all’Ungaretti del “Sentimento del Tempo”).

Con coerenza ideologica intendo, invece, il costante riaffermare da parte di Dell’Era la convinzione che non tutto si esaurisce per l’uomo con questo “viaggio terrestre”, che l’Essere, non il Nulla, costituisce l’inizio e la fine – origine e approdo – per la creatura, che la difficoltà a ravvisare un significato negli accadimenti mondani, spesso segnati dal dolore e dalla tragedia, non comportano la negazione dell’esistenza di un senso.

E tale persuasione non viene avvertita dal lettore come un qualcosa dato a priori, anteriormente, cioè, (e dunque dogmaticamente) a ogni confronto con la realtà; piuttosto, essa si forma e si rafforza progressivamente, via via che l’esperienza di vita del poeta incontra il mondo, incontra l’asprezza e l’opacità del mondo, incontra la gentilezza e la bellezza del mondo. Una conferma in tal senso ci è offerta anche dall’ultimo libro curato da Francesco Rossi (con prefazione di Maria Teresa Santalucia Scibona) e intitolato “Il libro dei segni celesti”. Al suo interno sono raccolte le liriche (178 in tutto) composte da Idilio Dell’Era tra il 1953 e il 1965, al tempo, dunque, della sua maturità umana e artistica.

Il dialogo col Signore, il recupero di episodi e momenti della propria infanzia e della propria giovinezza, lo sguardo che vasto si posa sulla campagna e sull’avvicendarsi delle stagioni, l’amore per la Toscana, il miracolo della nascita e il mistero della morte: più che semplici motivi letterari essi rappresentano epifanie del divino che, a colui che è disposto ad ascoltarlo, continua a parlare, sebbene “per signa”, dentro di lui e fuori di lui. La poesia che segue costituisce la terza sezione di “Deserto lume” e dimostra bene come nella poesia di Dell’Era l’Essere e il divenire, il transitorio e l’eterno, si richiamino a vicenda, rendendo labile il confine che separa il presente della città terrena dal futuro della città celeste.

“La morte viene col canto

dei passeri sul tetto

e tutto resta immutato

l’albero, l’insetto,

il fiume, il prato.

Sarà larva il mio corpo

sfinge bianca

nell’attesa dell’eterno.

Ma io so con quale voce

mi chiamerai, Signore,

che di dolcezza mi vedrai tremare”.

a cura di Francesco Ricci