Giovanna Antichi, L’untore

La seconda fioritura di romanzi storici, dopo quella che interessò il diciannovesimo secolo (si pensi alla linea Manzoni-De Roberto), è una fioritura che non mostra né pause né cedimenti. A partire dalla metà del Novecento, infatti, non pochi sono stati gli scrittori che si sono dedicati a questo genere (Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Eco, Vassalli, Camilleri) e che continuano a farlo, al punto che per il critico diviene difficile orientarsi ed orientare il lettore, aiutandolo ad avvicinarsi a testi di buona qualità. Un criterio che personalmente invito sempre a tenere presente – non soltanto, cioè, quando si parla di romanzo storico – è costituito dalla scrittura.

Quello che pretendo da uno scrittore, infatti, è che sappia scrivere bene. Questa è la condizione imprescindibile, senza la quale si è destinati a rimanere degli imbratta-carta, degli estensori di diari, dei pedanti eruditi, dei rubinetti rotti che riversano su pagina, senza soluzione di continuità, sentimenti immediati e idee confuse, quasi che “ars” fosse parola che nulla ha a che fare con la pratica della scrittura. Naturalmente l’espressione “scrivere bene” contiene una molteplicità di significati, dei quali lo “scrivere correttamente” è solamente uno, e neppure il più importante: non basta certo la conoscenza della grammatica a fare di uno “scrivente” uno “scrittore”.

A quest’ultimo, piuttosto, occorre la capacità di saper costruire – una trama, una scena, una situazione, un dialogo – e di saper conferire verosimiglianza e profondità al personaggio, l’autentica fonte mitopoietica, come ci ha insegnato Giacomo Debenedetti, della narrazione romanzesca. È alla luce anche di queste considerazioni che posso affermare che “L’untore” di Giovanna Antichi (Firenze 1968) è un bel libro. La precisione documentaria nel rappresentare la vita di Poggibonsi e a Poggibonsi (più in generale, in Val d’Elsa) durante l’epidemia di peste che dal 1629 e il 1633 colpì l’Italia, le peripezie che Bianca, la protagonista femminile, e Ferdinando, il suo promesso sposo, devono affrontare, il segreto dialogo-confronto che la prima istituisce con la Lucia del capolavoro manzoniano, della quale possiede la fede, ma, rispetto alla quale, rivela maggiore energia e spirito d’iniziativa, l’attitudine ad avvicinarsi al reale senza arrestarsi (né tacere) i suoi aspetti più prosaici, spesso urtanti e terribili, fanno dell’ “Untore” un capitolo importante di quella letteratura che vuole, partendo da episodi minori e spesso dimenticati, sia suggerire il significato autentico di una tendenza storica o di un secolo (qui il Seicento) sia individuare le costanti della/nella condotta degli uomini, che ci aiutano a riconoscere nelle generazioni passate, nel bene come nel male, i nostri simili. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale, recante il titolo “La capretta e il soldato”.                          

“I bambini non camminano mai. Corrono, saltellano, spendono inutilmente le energie di cui sono traboccanti come il mosto nei tini dopo la vendemmia. Settembre 1629 è quasi finito. Bianca adora quando arriva ottobre e si coglie l’uva, anche se detesta le cimici nauseanti e appiccicose, che si posano dappertutto, e i moscerini ubriachi di mosto, che inondano l’aria di fastidiose nuvolette, che sembrano inseguirla ovunque tenti di scappare. Spesso piove e a lei tocca il compito di stare dietro ai bambini più piccoli, che corrono come leprotti tra l’erba bagnata, cogliendo l’uva dimenticata fra i tralci vuoti o cercando le lumache che spuntano fra le rocce dopo la pioggia. Accorrono in molti anche dal paese, intere famiglie si spostano scalze tra i filari, in pochi usano le scarpe che, pesanti di pantano, vengono via dai piedi e restano incollate tra le zolle molli. Da una vita all’altra si tagliano le ciocche mature con un trincetto dalla lama molto corta e ricurva, che poi viene riposto in un vecchio corno di bue, ingiallito, appeso alla cintura. Si trascinano i panieri traboccanti di grappoli, che gli uomini più validi rovesciano nelle bigonce, grossi canestri piazzati sopra il carro, che resta fermo sul sentiero principale perché troppo largo e pesante per passare tra i filari senza sprofondare con le ruote nel terreno fradicio e morbido. È una grande fatica ma si ride e si chiacchiera, si canta e si guarda il cielo, nella speranza che non piova troppo. A mezzogiorno, per pranzo, ci si ferma a mangiare, seduti sui panieri rovesciati o su qualche sasso asciutto”.

Giovanna Antichi, L’untore, Amazon Fulfillment 2020

a cura di Francesco Ricci