Gabriella Paci, Sfogliando il tempo

Orologio foto di Francesco Laezza

“Sfogliando il tempo” è un titolo che introduce immediatamente il lettore nei territori della poesia, dove la logica asimmetrica (classica, aristotelica) spesso si ritrae per fare spazio alla logica simmetrica, per la quale né il principio di non contraddizione né l’individualità dell’io possiedono rilievo. E così accade – può accadere – che suoni familiare e normalissima un’espressione verbale, quale è quella scelta per il suo ultimo libro da Gabriella Paci, nella quale il verbo (“sfogliando”) ammette sia il significato di “perdere le foglie” sia il significato di “scorrere in fretta”, mentre il sostantivo che svolge la funzione di complemento oggetto (“il tempo”) costituisce già un esempio di quell’uso figurato o traslato delle parole che della poesia è caratteristica essenziale. Ma quale spettacolo si spalanca davanti agli occhi di chi ripercorra con pazienza e con amorevole cura gli anni passati? Nel caso di Gabriella Paci ad occupare la scena, specie nella prima (“Passate stagioni”) e nell’ultima (“Ricorrenze”) delle tre sezioni di cui si compone la raccolta, sono gli affetti più cari (a partire dalle figure del padre e della madre) e l’incantata giovinezza, quando tutto ancora pareva possibile e nulla sembrava poter fare male. Dinanzi a questo spettacolo di rovine (“sul pennone / della torre delle speranze diroccate”), non sono sufficienti né la dolcezza di certe memorie (“ai ricordi del tempo di / scuola e d’amore sognato tra i banchi”) né la struggente partitura musicale di alcuni versi (“Forse girava sbagliata la moviola di allora”, “affacciava sillabe di sole / tra i pensieri di scuola e di vita”, “Ma già declina la luce negli occhi del giorno”) ad attenuare la consapevolezza che tutto il tempo che ci è alle spalle – come insegna la saggezza degli antichi – è ormai in potere della morte. Dinanzi a tale verità, la reazione psicologica difensiva dell’io lirico è quella di abbracciare e valorizzare il tempo presente, di viverlo, di provare a rinvenirvi (o a costruirvi) un senso: il rischio, infatti, per chi guarda troppo a lungo la fotografia di ciò che è stato, è di finire col somigliare a un frammento di morta esistenza.

Ma il tempo che alla poetessa è dato in sorte di attraversare e di esperire, è un tempo fragile (e proprio “Tempo fragile” s’intitola la sezione centrale di “Sfogliando il tempo”), incerto, drammatico. Tempo malato, tempo che determina una rarefazione dei rapporti e delle relazioni, rendendo pungente l’attesa del risveglio di “quella luce che non ci illumina più / negli abbracci mancati e nelle ferite / delle perdite”. Tempo, soprattutto, che, nonostante l’ovattata, a volte plumbea, pesantezza di certi giorni, continua a scorrere, a dissipare e a dissiparsi, determinando, a livello metrico, un uso ampio originale – autentica cifra stilistica, dunque – dell’artificio dell’enjambement, che vede cadere la fine del verso non solamente tra aggettivo e nome o tra verbo e complemento oggetto, ma anche tra preposizione e sostantivo: “spazza parole nel / turbine”, “in fondo alla / ricerca”, “promesse dal / profumo”, “trovare orma sul / gesso”, “un nugolo di / pensieri”, “accoglie nel / debole cerchio”. E niente meglio di questo prolungarsi del periodo logico al di là della pausa ritmica esprime la percezione dolente del trascorrere del tempo che ha Gabriella Paci, che elegge splendidamente a luogo del suo poetare il confine tra il vivere la vita e il raccontarla, tra l’arrendersi alla devastazione degli anni e il portare in salvo ciò che un giorno ci fu caro e prezioso (e continua a esserlo). La poesia che segue si intitola “A mio padre”.               

Come pianta cresciuta senz’acqua

sei restato in disparte sui bordi

evitando strade larghe ai passaggi

nel timore d’un tempo indomabile.

Ombroso e assorto lo sguardo

anche nello sfolgorio del sole africano

a scansare gli eccessi di troppa

vita che, liquida, sfugge dalle dita.

Silenzi le tue parole d’amore

affacciate negli occhi e nei gesti

nel pudore di un sentire fanciullo

avvezzo alla perdita della conquista.

Eri semplici e contorto come

ulivo dai sapidi frutti

cresciuto in fretta su pendii

ma che dona paesaggi di pace

anche se la pietra è dei luoghi regina.

 

Gabriella Paci, Sfogliando il tempo, Helicon, Arezzo 2021

a cura di Francesco Ricci

foto di Francesco Laezza