Francesco Ricci, Madri e fratelli

“Madri e fratelli” costituisce l’ultimo capitolo dell’ideale ‘trilogia d’autore’ iniziata da Francesco Ricci nel 2016 con “Pier Paolo, un figlio, un fratello” e proseguita nel 2019 con “Elsa. Le prigioni delle donne”, due libri entrambi premiati dalla critica. Tuttavia, già il semplice confronto tra i titoli è in grado di dare conto di un’importante differenza rispetto ai precedenti lavori. Infatti, se in “Pier Paolo, un figlio un fratello” e in “Elsa. Le prigioni delle donne” a venire incontro al lettore era sin da subito il personaggio-monologante, vale a dire Pasolini e la Morante, in “Madri e figli” è del tutto assente il riferimento a una figura di rilievo della cultura italiana novecentesca.

Una differenza, questa, di non poco conto, se è vero che lascia trasparire la natura maggiormente romanzesca di “Madri e fratelli”, dove la base documentaria è certamente forte e significativa – la cornice storica è ricostruita con scrupolo e precisione –, ma il campo della manzoniana “invenzione” rivendica per sé e consegue un deciso allargamento. Ecco, quindi, che le parole che vengono scambiate in un mite pomeriggio romano del settembre 1956 dai tre protagonisti del romanzo, dietro i quali è facile riconoscere Carlo Emilio Gadda, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, diventano per l’autore l’occasione per riflettere intorno a questioni che sono state sì centrali nell’esistenza dei tre scrittori, ma che lo sono altrettanto per Ricci e per ciascuno di noi: la famiglia, l’amicizia, l’amore, la morte, il male, la giovinezza, la bellezza, la cultura, il senso del nostro essere nel mondo. Rispetto ai due precedenti romanzi, inoltre, in “Madri e fratelli” appare ulteriormente accentuato il lavoro dell’autore sulla lingua. Specie nelle parti dialogate, infatti, Ricci ricrea l’inconfondibile maniera di esprimersi dei tre grandi scrittori, che interpretarono ciascuno in maniera diversa il rapporto tra lingua d’uso e lingua letteraria, tra italiano e dialetto.

Si consideri, a titolo d’esempio, quanto dice il personaggio-Gadda nel primo capitolo: “Io nella mia vita ho lavorato fin troppo, vero, in giro per tutto il mondo, anche in Argentina, e non avevo ancora trent’anni, onorari spesso magri versati ad affittaporcili di nessunissima moralità, grigi lavori ingegnereschi, vero, con la rancura che mi stringeva d’appresso”. Accanto alla precisione nel ricostruire il clima dell’Italia alla vigilia del cosiddetto boom economico e alla caratterizzazione linguistica dei personaggi, di assoluto rilievo appare l’importanza che Ricci riserva alla vita interiore di questi ultimi, scandagliata con grandissima sensibilità e finezza. La tragedia che li accomuna – tutti e tre gli uomini hanno perduto in guerra un fratello – e la natura del legame con la figura materna – che oscilla dal rapporto totalizzante con la madre a quello in cui il genitore è distante, spesso assente – suscitano in loro risonanze sentimentali e favoriscono conclusione della ragione (sul senso della Storia, sulla natura dell’uomo, sul perché del male nel mondo), le quali rendono il loro colloquio dolente, a tratti commovente, talora di una disarmante sincerità. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale.    

“Fu un colpo di tosse a ricordare agli altri due uomini che c’era anche lui. Alto, dalla corporatura robusta, quasi imponente, con addosso un completo blu scuro. Osservava le persone attraversare con passo svagato piazza del Popolo, in quel tardo pomeriggio romano. Due pieghe tra il naso e la bocca, due pieghe sotto gli angoli di quest’ultima, gettavano una densa ombra di stanchezza sul suo viso. Quando sentì su di sé lo sguardo dei due uomini – di scatto si erano voltati verso di lui – si vergognò un po’ e abbassò gli occhi, incontrando il tavolino coperto da una piccola tovaglia rosa. “All’inizio si divertiva”, disse l’uomo dalle folte sopracciglia. “Credo che le facesse anche bene tenere una rubrica settimanale. L’aiutava a mettere un po’ d’ordine nel suo modo di lavorare. Elsa, infatti, non è mai stata metodica, non ha mai concepito l’idea di sedersi alla scrivania tutte le mattine alla solita ora, afferrare l’album da disegno o il quaderno di scuola, riprendere il discorso da dove l’aveva lasciato interrotto il giorno precedente. Per lei, per scrivere, esistono solo il pomeriggio e la notte, e neppure sempre, solamente quando i suoi uomini, le sue donne, i suoi ragazzi la chiamano”. “Quali uomini?”, domandò l’uomo dalle guance scavate. “I personaggi, i personaggi dei suoi racconti e dei suoi romanzi. Il mondo che lei crea sulla pagina l’incatena, non la lascia più libera. In quel mondo lei s’immerge completamente, si reinventa, vive tantissime vite. Alla fine, penso che Edoardo e il Butterato ai suoi occhi appaiono più reali di me e di te, di certo più interessanti”. “Parlami di quella rubrica”. “Si trattava di una rubrica radiofonica della Rai. All’inizio ero io a occuparmene. Poi cominciai a collaborare con “L’Europeo” e con “L’Espresso” ed Elsa prese il mio posto. Era in gamba, a me piaceva come recensiva i film, sebbene nell’analisi si facesse guidare quasi esclusivamente dalla sua sensibilità, dalle impressioni del momento”.”

 

Francesco Ricci, Madri e fratelli, nuova immagine, Siena 2022