Francesca Sbardellati, Il segreto di Ballerup

“Il segreto di Ballerup”, interessantissima opera d’esordio di Francesca Sbardellati, non è un romanzo, è una tragedia in prosa. Nonostante la sapienza con la quale è costruito l’intreccio, l’attenzione riposta nel tratteggiare la cornice spazio-temporale, la presenza massiccia del procedimento della prolessi (o “flash-forward”) e dell’analessi (o “flash-back”), la cura nel disegnare i ritratti dei personaggi, dei quali sono costantemente posti in rilievo l’aspetto fisico, la componente psicologica, l’ambiente sociale, il livello culturale. Né devono ingannare certe sezioni, squisitamente narrative, nelle quali a dominare sono le azioni, sono i verbi d’azione: “Camminava per strada, con un passo nervoso.

Era agitata. Spingeva con foga il passeggino, incurante dei pericoli della strada. Attraversava gli incroci senza guardare. Il suo comportamento innervosì Matthias che iniziò a piangere dimenandosi tra le coperte che lo avvolgevano”). “Il segreto di Ballerup” è, torno a ripeterlo, prima di tutto una tragedia, e lo stesso “indice dei personaggi” posto “in limine”, la presenza di un prologo, l’indicazione in copertina, tra parentesi, subito dopo il titolo, “volume primo”, concorrono a suggerire l’idea che questo libro deve considerato come il primo dramma di una trilogia tragica, che ricava la propria materia non dal mito, ma dalla storia contemporanea danese.

Ma se, dunque, “Il segreto di Ballerup” è assimilabile a un testo teatrale, cosa va in scena? Cosa si trova al centro della scena? Qual è il tema che viene affrontato e proposto al pubblico? Verrebbe voglia di rispondere che la questione di fondo è costituita dalla maternità e, in particolare, da quella particolare tecnica di fecondazione assistita che è chiamata ovodonazione, sui dubbi che possono accompagnare colei che dona gli ovociti e colei che li riceve, sulla reazione di familiari e conoscenti, sui risvolti etici di tali procedure. Tanto più che, al di là del desiderio di divenire mamma da parte di Linda Toleman (“Oltre alla carriera aveva messo al centro della sua vita il sogno di diventare mamma”) e della volontà di non esserlo da parte di Greta Olmsen (“Nella mia vita non c’è spazio per un bambino”) – le due amiche protagoniste della storia – grande rilievo è accordato anche al rapporto che entrambe intrattengono con le rispettive madri. Tuttavia, al centro del dramma non c’è la maternità, c’è la solitudine. Nell’universo di Francesca Sbardellati ogni personaggio è irrimediabilmente solo.

Né l’amore né l’amicizia salvano, e poco possono anche i legami di sangue. Certo, questi sono in grado di aiutare a dare compimento a un’aspirazione, di assecondare una passione attraverso la quale passa l’autorealizzazione del soggetto. Oltre, però, non vanno, non possono andare. Finisce, così, che ci si ritrova sempre soli a vivere quella situazione – quella condizione – a lungo disiderata, inseguita, raggiunta, la quale, nel suo scivolare dal piano del sogno a quello della realtà, a volte sa anche essere deludente. E dinanzi alla delusione, tanti sono i modi di reagire, spesso fallimentari, a volte drammatici nelle loro conseguenze, ma tutti meritevoli di rispetto, perché tuti ispirati a un’identica volontà di alleggerire il peso di un’esistenza amara, claustrofobica, assurda. Il passo che segue è tratto dal prologo del romanzo di Francesca Sbardellati, che sarà ospite della Libreria Palomar di Siena sabato 15 febbraio, alle ore 17.45.          

“Era inverno nella cittadina di Ballerup, distante solo pochi chilometri dal centro di Copenaghen. Il vento sferzava forte gli alberi del viale dell’ospedale psichiatrico. All’orizzonte, minaccioso, si stava avvicinando un temporale che non prometteva nulla di buono. Verso ora di cena il dottor Oliver Kamp era ancora nel suo studio al primo piano, poco distante dal padiglione dei ricoveri intensivi. Il suo turno era terminato ormai da diverse ore, ma quel giorno sapeva che avrebbe dovuto fare degli straordinari. Mentre sul vetro della finestra dell’ufficio cominciavano a picchiettare le prime gocce di pioggia, Oliver rileggeva sotto la luce del pc il rapporto che aveva compilato su una paziente che seguiva ormai da diverso tempo. Dopo una seconda e attenta lettura, decise che era pronto per la stampa, inserì la data, l’ora e il luogo. La stampante cominciò a produrre i primi fogli, il dottore si alzò dalla scrivania, si diresse verso la scaffalatura dell’archivio ed estrasse un grosso faldone che appoggiò sul tavolo. Alla vista del nome della sua paziente emanò un grande sospiro, seno di una tensione che stava aumentando dentro di lui. Prese i fogli della stampante e li mise all’interno di un fascicolo che aveva estratto dal faldone. Una volta riposto il documento, si pocciò con entrambe le braccia distese sul tavolo, chiuse gli occhi e sospirò di nuovo. I suoi pensieri furono subito interrotti da un tuono che ricordò in un istante al dottore qual era la cosa giusta da fare. Si diresse così nuovamente alla scrivania, prese il cellulare e compose un numero che conosceva a memoria”.

 

Francesca Sbardellati, Il segreto di Ballerup, Alpes, Roma 2019

 

a cura di Francesco Ricci