Francesca Farina, Liceo Classico

“Liceo Classico”, l’ultimo libro di Francesca Farina, pubblicato da Bertoni, non è un libro né facile né consolatorio. Non è facile, perché se la crescita-formazione di una Ragazza, mai indicata col nome di battesimo, all’interno di un convitto cittadino e nelle aule del liceo “E.S. Piccolomini”, costituisce il tema di fondo del romanzo, anche altri sono i motivi, ora esibiti ora più celati, ai quali il lettore è invitato a prestare attenzione, motivi che rimandano al contesto storico-sociale senese dei primi anni Settanta e che suggeriscono interessanti confronti con la situazione attuale (ad esempio, sulla maniera di intendere e di praticare la professione di docente). Non è consolatorio, perché il pessimismo dell’autrice non risparmia né la natura umana né la vita associata.  L’antropologia di Francesca Farina è sostanzialmente un’antropologia negativa, che ravvisa nell’egoismo, nella cattiveria, nella propensione alla finzione i tratti costitutivi della natura umana. Ciò, ovviamente, non significa che le persone non siano capaci anche di gesti generosi e disinteressati: ma l’eccezione non deve essere confusa con la regola. Vero è che il dato di partenza naturale in “Liceo Classico” non sembra poter venire né corretto né attenuato dalla cultura, popolare o alta che sia, la quale esercita il suo condizionamento anche sul vivere “politico” – vale a dire il vivere in società – dell’individuo.

A partire dalla famiglia, il nucleo originario della “societas”, per arrivare agli organismi più vasti e complessi, l’essere-con-gli-altri è sempre concepito, alla maniera di Pirandello, come una trappola, come un carcere. E se i rapporti all’interno della famiglia di origine della Ragazza sono contraddistinti dalla forza e dalla secolare distinzione di ruoli (“la Madre, da una parte, che svolgeva le sue faccende penosamente, scontenta come una serva malpagata…e dall’altra il Padre, in continua lotta coi figli, come un leone che sia costantemente irato con la riottosa, selvatica prole”), quelli all’interno del convitto, della scuola, della città di Siena, appaiono all’insegna di una singolare commistione di superbia, tracotanza, invidia, chiusura nei confronti di chi, o per cultura o per ricchezza, si trova collocato più in basso. La stessa altissima frequenza con la quale ritornano pagina dopo pagina i sintagmi di sapore dannunziano “la Città ferrata” e “la Città turrita” possiedono un’evidente valore allegorico, che viene chiarito da passi come quelli che seguono: “Nessuno del resto le rivolgeva mai la parola, né uno solo sguardo, nessuno le chiedeva i compiti, né di confrontare i suoi con quelli di lei”, “Unica gioia in quell’universo chiuso e claustrofobico erano le canzoni che giungevano a tratti dalle radiolina”, “Per il resto, stare in Collegio significava per lei vivere in un deserto, “La lotta per emergere agli occhi dei professori faceva sì che ognuno custodisse gelosamente i propri elaborati”. 

A mitigare in parte l’inevitabile solitudine della protagonista provvedono la bellezza di Siena, la musica, la poesia, soprattutto la poesia, definita “faro luminoso nella notte tenebrosa dei suoi istanti”. Ma noi siamo esseri sociali: a medicare le ferite che gli altri ci infliggono, possono essere solamente altri uomini, altre donne. È per questa ragione che a un certo punto l’unico risolutivo argine per la protagonista, dinanzi all’avanzare in lei dell’angoscia, della disistima, dell’aridità interiore, diviene il Ragazzo che la protagonista incontra e del quale, ricambiata, s’innamora. La salvezza intravista, però, non arriva. Perché nella Ragazza rimane sempre qualcosa d’irrisolto, di non chiarito, che la conduce ogni volta lontano dal presente, rendendola incapace di misurarsi col tempo che vive, il cui valore è afferrato sempre quando ormai è tardi, attraverso il ricordo, attraverso la nostalgia che improvvisa l’assale. Forse si tratta di un senso di colpa che da sempre le appartiene, non già conseguenza della società disciplinare, al cui interno si viene a trovare e a crescere, bensì originato dalla semplice coscienza di “exsistere” (“Lei desiderava assurdamente soffrire e far soffrire, come per riscattarsi dalla colpa di esistere”).  Quello che è certo è che questo fondo oscuro la condiziona, fa di lei una spettatrice della propria esistenza, come chi si accontenti di osservare il mare da riva e dimentichi che la vera vita non consiste mai nel guardare l’ampia distesa azzurra, ma nel bagnarsi, nel nuotare, nel muovere le braccia tra le onde. Il passo che segue costituisce l’incipit del romanzo e costituisce un esempio significativo della musicalità della scrittura di Francesca Farina, evidente in particolare nelle descrizioni urbane e in quelle rurali.             

“La Città si snodava ai lati della sontuosa automobile di piazza che li portava, nera e immensa come una carrozza funebre, degna di un funerale di prima classe. Cancelli altissimi si intravedevano oltre i vetri degli sportelli, sinuose volute di ferro a simulare intrichi di edere e convolvoli, al di là dei quali si scorgevano tenebrose ville dalle imposte sprangate e giardini perfettamente curati e parchi in cui si perdevano folti boschi di sterminati platani e ippocastani, scorrendo ai fianchi della vettura con lentezza esasperante, finché dai sobborghi periferici della Città la macchina si addentrò nel cuore del borgo antico. Maestosi palazzi, casamenti alti e stretti, simili a torri di guardia medievali, scrutavano la Ragazzina coi loro occhi spaventosi. Il rosso dei mattoni era per lei sangue che colava lungo le strade, tra i graniti ferrosi del selciato, ma le ferite da cui quel sangue sembrava gocciare incessantemente le aveva in lei, insanabili. Lo strappo delle radici era stato tanto brusco e forte da devastarla, lasciandola inebetita, obnubilata. La Ragazzina si sentì sprofondare dentro un Medioevo caliginoso, in pieno secolo ventesimo. Capuleti e Montecchi coi loro scherani, in mano i corti e sottili stiletti dai puntali d’argento, pareva dovessero sbucare all’improvviso da ogni svolta, da ogni cantone nascosto, dietro cui immaginava celarsi agguati cruenti. La vettura prese a salire lentamente per via Banchi di Sopra, quindi scese verso porta Pispini, mentre a quel nome inquietante un misto di bisbigli, di sussurri misteriosi con una reminiscenza di spine le echeggiò nella mente, oltrepassandola per infilarsi in una strettoia, quasi un budello pauroso su cui si addensavano le case”

 

Francesca Farina, Liceo Classico, Bertoni, Roma 2021

 

a cura di Francesco Ricci