Fausto Tanzarella, Prigionieri del sangue

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“Prigionieri del sangue”, il nuovo romanzo di Fausto Tanzarella, può essere letto, all’interno della produzione dell’autore, tanto come il primo quanto come l’ultimo dei thriller ambientati nella Siena del XIV secolo, che vedono protagonista Bernardino Cristofori, “il più grande avvocato che fosse in tutta la Repubblica di Siena e direi in Toscana”, come lo definisce la voce narrante, che coincide con quella di Jacopo di Bencivenne, suo amico e allievo. Il primo, perché, pur essendo il quinto romanzo con protagonista Bernardino, da un punto di vista cronologico precede tutti gli altri: non a caso, è proprio in “Prigionieri del sangue” che viene raccontato l’incontro tra lo stesso Bernardino e il già menzionato Jacopo. L’ultimo, dal momento che “Prigionieri del sangue” viene, guardando all’anno della pubblicazione, dopo “I giorni del corvo”, “Un’ombra nera”, “Il codice dei corpi”, “Affresco”.

E cosa resta, o cosa cambia, se qualcosa cambia, rispetto ai romanzi che lo precedono? In altre parole, ci troviamo in presenza di un libro all’insegna della continuità o della discontinuità in relazione a quanto Tanzarella ha già dato alle stampe? Direi entrambe le cose. Da un lato, infatti, rinveniamo la consueta impeccabile scrittura di Tanzarella, la quale, con il suo morbido periodare, l’attenta e puntuale scelta del lessico, le pause indotte dall’uso della punteggiatura, sa dare concretezza pittorica ad ambienti, edifici, gesti, indumenti, oggetti, comunicando al lettore un senso di ordine e di equilibrio, che costituisce la risposta, sul piano della forma, al disordine e alla confusione che caratterizzano, lacerandola, la compagine sociale senese in quel lontano Trecento, la quale, nei primi capitoli di “Prigionieri del sangue”, appare ancora in ostaggio della rivalità tra la famiglia Manzeghi e la famiglia Guastelloni.

Dall’altro lato, però, a me pare che stavolta Tanzarella agisca anche a livello d’impianto generale dell’opera, introducendo un elemento, se non di rottura, certo di novità rispetto ai precedenti suoi libri. Come? Per quale via? Facendo della suspence, della sorpresa, dell’incertezza, dello scioglimento del dilemma – tutti elementi attraverso i quali si snoda abitualmente il percorso che conduce, nel genere giallo e noir, dalla scoperta (dalla notizia) di un delitto (di un reato) alla soluzione del caso – gli ingredienti di ciascuno dei capitoli di cui il libro si compone. Insomma, è come se il lettore si trovasse in presenza non di un solo romanzo di quasi trecento pagine, ma di trentadue (tanti sono i capitoli) brevissimi romanzi (a rigore, dunque, racconti), che, una volta finiti di leggere, lasciano un forte desiderio di proseguire, di vedere come quella conversazione, quella missione, quello stratagemma, quella notte, si concluderanno, quali conseguenze avranno.  E tutta questa attenzione accordata alla struttura e allo stile del romanzo, non va mai a scapito del contenuto, che appare parimenti curato dal punto di vista della verosimiglianza della storia narrata, della credibilità dei personaggi (il loro modo di esprimersi è sempre coerente con la loro condizione sociale e con il grado di cultura che possiedono), della profondità con la quale si parla dell’amicizia, dell’amore, del potere. Il passo che segue costituisce il “Prologo”.     

“Ebbene sì, io, Jacopo di Bencivenne da Gavorrano, per oltre dieci lustri giureconsulto in Siena, dal mio rifugio nella verde campagna di quella città contorna, prendo ancora una volta in mano la penna e seguito a narrare le gesta di quell’uomo valentissimo e sapiente che fu l’avvocato e indagatore di malefici Bernardino Cristofori, mio compianto maestro e amico. Coloro che fin qui hanno avuto la cortesia di leggere le mie cronache e la bontà di apprezzarle, mi hanno sempre chiesto di spiegare ciò che finora avevo tralasciato: come ebbe origine la mia amicizia con il maestro? Come era avvenuto l’incontro e nato l’amore tra Bernardino e la sua bellissima Giuditta? Per corrispondere a tale benigna curiosità ho dovuto addentrarmi nella narrazione delle dolorose vicende che, nel lontano autunno del 1342, discesero dall’assassino di Messer Anselmo Mazenghi e furono poi segnate da altri crudeli delitti; dovendo altresì trattare dell’insanabile odio tra la stessa famiglia dei Mazenghi e quella rivale dei Guastelloni. La Repubblica invocò Bernardino per svelare l’origine di tali malefici e al contempo sedare gli odi che correvano tra quelle due stirpi, come tra numerose altre in Siena, e rendere pace e ordine alla città”.

 

Fausto Tanzarella, Prigionieri del sangue, Pascal, Siena 2021

a cura di Francesco Ricci