Emiliano Bianchi, Sei luce dei miei occhi

La società degli uomini è una società ipocrita e violenta. Probabilmente lo è sempre stata. Di sicuro lo è quella del terzo millennio, dove, complice la pervasività della tecnologia digitale, è possibile avvicinare chi è lontano e allontanare chi è vicino, senza, però, darlo a vedere, senza, ad esempio, rivelare che il sorriso che illumina il nostro volto non è affatto legato alla gioia che ci procura avere accanto, magari mentre si guarda la televisione, il nostro compagno, bensì è suscitato dalla lettura del messaggio d’amore, che qualcuno, a noi indubbiamente molto caro, ha inviato.  E se dall’ipocrisia qualcuno riesce a salvarsi – penso ai bambini –, dinanzi alla violenza non c’è scampo per nessuno: essa, infatti, tutti travolge, tutti schiaccia, rendendo spesso labilissima la distinzione tra la vittima e il carnefice, se è vero che chi oggi patisce una violenza è lo stesso che un domani è capace d’infliggerla. È questa la prima considerazione che s’impone dopo avere letto l’ultimo libro di Emiliano Bianchi (Siena 1973), intitolato “Sei luce dei miei occhi”. Libro potente e di drammatica essenzialità: togliete l’ipocrita e togliete il violento, togliete la vittima e togliete il carnefice, e crolla l’intero sistema dei personaggi.

L’ipocrita è colui che finge, che simula e dissimula, che recita una parte. Significativamente in greco antico ipokritēs significa “attore”: in certe persone tra il volto e la maschera si apra uno iato, che può divenire anche abissale, e che difficilmente è indizio di buone intenzioni. È quanto accade nel romanzo di Bianchi, dove recita Angelica, recitano i suoi colleghi di lavoro, recita Mauro (il marito), recita Dario (l’amante), recita l’anziano medico di base, recita la direttrice della casa-famiglia. La sola a non recitare è Alessandra, moglie di Dario, ma unicamente perché un leggero ritardo mentale la rende una creatura indifesa, inerme, fragile, portata a risolvere immediatamente in atto ciò che pensa e ciò che sente: ogni mediazione della ragione e della volontà è in lei assente. Ma se questo deficit cognitivo la pone al riparo dalla menzogna e dalla bugia, nulla può di fronte allo scatenarsi della violenza.

Una violenza che l’autore mostra nelle sue tante sfaccettature (relazionale, fisica, verbale, psicologica) e nelle sue tante declinazioni (istintuale, cieca, preterintenzionale, pianificata), al punto che essa, alla fine, della condotta umana pare costituire la norma più che l’eccezione. No, il mondo degli uomini non è un bel posto in cui vivere, se anche una frase scritta a mano su un foglio di carta, frase che parla di bellezza e d’amore (“Sei luce dei miei occhi”), è in grado di risvegliare il male. Un male, ed è questo l’aspetto più inquietante del bel romanzo di Bianchi, che è dentro ciascuno di noi, da qualche parte, laggiù nel profondo, e che basta poco a fare uscire, mentre occorre tantissima forza per trattenere, per contenere. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale, e mette in scena la protagonista femminile, Angelica, il cui nome, alla luce di quanto avviene poi, appare già un penoso inganno. Sì, la società degli uomini è una società ipocrita e violenta.    

      

“Angelica si sedette sul letto e si sciolse la crocchia improvvisata che aveva realizzato troppo in fretta. I capelli, lisci e profumati, le lambirono le spalle accarezzandole la pelle ambrata quando mosse la testa socchiudendo gli occhi in un gesto dolce e sensuale. Era nuda e nonostante non avesse più vent’anni il suo senso sembrava quello di un’adolescente. Le lenzuola profumavano di pulito, come sempre. Le tende color crema facevano filtrare nella stanza la luce intensa di un sole ormai fatto che riluceva nel pavimento bianco come il latte. Fra poco una ragazza grassoccia con un grembiule bianco stretto attorno alla vita avrebbe percorso il corridoio spingendo un grande cesto con le ruote contenente biancheria sporca e, soffermandosi davanti alla camera avrebbe bussato piano, con le nocche. Angelica le avrebbe chiesto di proseguire oltre: “passi più tardi, per favore” e la ragazza avrebbe chiesto £scusa” a bassa voce, avrebbe spinto il cesto giù per il corridoio e si sarebbe occupata delle altre stanze cambiando le lenzuola nei letti disfatti, svuotando i cestini dell’immondizia e sostituendo gli asciugamani nei bagni. Angelica odiava quella parte della giornata perché sapeva che la ragazza con il grembiule bianco (che non era mai la stessa), oltre al carrello della biancheria, si portava via anche il piacere, il desiderio, le parole pronunciate a mezza voce e l’amore segreto e clandestino che covava nei cuori di entrambi, di lei e di lui. E allora un filo di malinconia le faceva bruciare lo stomaco, per un attimo”

 

Emiliano Bianchi, Sei luce dei miei occhi, Antìpodes, Palermo 2021