Elisabetta Ricci, Un’allodola nell’anima, Betti, Siena 2020

Il titolo scopertamente tozziano non deve trarre in inganno (“Un’allodola nell’anima”, infatti, rimanda al primo dei sessantanove frammenti che compongono Bestie: “Ma un’allodola è rimasta chiusa dentro l’anima”). E neppure deve indurre in errore la genesi del libro, chiarita dall’autrice in una nota d’apertura: “(L’amico editore Luca Betti) mi propose di continuare a scrivere racconti di animali, in particolare di far parlare le Bestie di Federigo Tozzi”.

“Un’allodola nell’anima” è, in realtà, un libro che nasce all’ombra del grande scrittore senese, ma che possiede una sua originalità e una sua autonomia. Insomma, se Tozzi già con “Bestie” si collocava al di là della barriera del Naturalismo, anche Elisabetta Ricci va oltre la semplice riproposizione del modello in questione. Cosa resta, in lei, a ben vedere, della prima opera importante dello scrittore senese? Resta il parallelismo tra il testo iniziale e quello conclusivo, che presentano entrambi due bestie tipicamente tozziane, quali sono l’allodola e il rospo, resta, soprattutto, la fenomenologia crudele e violenta della realtà. Tale realtà, però, – ed in questo consiste il principale elemento distintivo di Elisabetta Ricci insieme all’adozione di una scrittura che solamente a tratti appare di matrice espressionistica – non viene interrogata al fine di ricavarne un possibile significato (significato, che, peraltro, a Tozzi non si rivelava, non si offriva, non si dichiarava). Complice la sua formazione (Elisabetta Ricci è una studiosa di scienze naturali), gli animali, gli uomini, gli atti, i gesti, vengono osservati e riproposti con un’attitudine classificatoria, la quale tradisce ancora la fiducia nella parola scritta come mezzo per razionalizzare la realtà.

Che poi tale razionalizzazione sia da interpretarsi come semplice conferimento di un ordine al mondo o come spiegazione esauriente (ideologicamente fondata) di quest’ultimo, è discorso che ci porterebbe molto lontano. Quel che è certo è che la realtà, pur nella sua opacità, finché viene catturata dallo sguardo e narrata, evitando, cioè, di andare al di là dell’involucro esteriore che si offre alla vista, rivela anche aspetti curiosi, divertenti, umoristici, che alleggeriscono il peso di uno spettacolo nel quale la violenza subita dagli animali ci parla anche della violenza patita dagli uomini (ora vittime ora carnefici, più spesso entrambe le cose). Da ciò discende quella deliziosa ironia – che invano si cercherebbe nelle “Bestie” di Tozzi – che contraddistingue alcuni dei racconti di “Un’allodola nell’anima”, come “Proposta di tesi di dottorato in Etologia”, “Canis condominialis”, “Evviva gli ingenui, questi esseri inutili”.  Il passo che segue è tratto dal racconto che dà il titolo all’intera raccolta e che, al pari dell’ultimo (“Il bastardo e il padrone”), costituisce il momento di massima ed esibita tangenza con l’opera di Federigo Tozzi.   

“Il ricordo della mia ultima giornata di libertà è un chiodo nella pancia che non uccide, ma sanguina per sempre. Spaziavo nell’azzurro di un cielo tiepido e senza vento, piroettando e volteggiando come una pazza, quando vidi lui, una figurina in lontananza, nera, che osservava la chiara tranquillità delle campagne. Sembrava in pace col suo cappotto e in accordo col giorno. Lo andai a salutare girandogli intorno gioiosa e ogni volta mi avvicinavo sempre di più quasi rasentandolo, per stordirmi e sfidarlo a scacciarmi via con una manata. E continuavo la mia garrula provocazione per strappargli almeno un gesto. E poi è stato il nero. Mi ha presa con gli occhi. Mi ha negato il cielo, mi ha rubato l’ombra, mi ha donato la sua anima e mi ha intrappolato nei suoi cancelli. Ora quello che lui vede io vedo, sento il suo sentire, sento i vortici dei suoi pensieri, sprofondo nel mare buio della sua amara impotenza dove ondate di lacrime trattenute mi annegano. Voglio uscire, non ce la faccio a sopportare inerme il suo strazio, mi dibatto nella sua testa, gli perforo il cranio col becco, gli lacero gli occhi, sussurro, canto, strido, urlo. Non mi ascolta, si perde nel tanfo del dolore delle sue bestie”

Elisabetta Ricci, Un’allodola nell’anima, Betti, Siena 2020

a cura di Francesco Ricci