Duccio Balestracci, Stato d’assedio

“Kingdoms are clay” dice Antonio parlando con Cleopatra nel primo atto (scena prima) della tragedia che prende nome dai due protagonisti. E in quanto di argilla, i regni si sgretolano, al pari degli imperi, al pari delle città-stato. Una verità, questa, che a Leopardi, al Leopardi della “Sera del dì di festa”, faceva “fieramente” stringere il cuore, inducendolo a pensare che al mondo tutto, ma proprio tutto, passa “e quasi orma non lascia”. Certamente è stata proprio la poesia quella che è riuscita meglio a cantare la fine e, insieme con la fine, l’assenza e la mancanza che a essa conseguono. Si pensi a Solimano, re dei Turchi, che dall’alto della torre di David nella “Gerusalemme liberata” contempla la disfatta dell’esercito egizio ad opera dei cristiani poco prima che i crociati guidati da Goffredo di Buglione entrino nella città, superando così la resistenza degli assediati. Ilio. Tebe, Gerusalemme: è proprio vero, “Kingdoms are clay”. E Omero, Stazio, Tasso ce lo ricordano, facendoci intuire cosa ci fu prima della distruzione, cosa ci sarà, se ci sarà, dopo la distruzione. Ma il genere storiografico? Il genere storiografico che concede così tanto rilievo al racconto e alla ricostruzione delle vicende militari, e dunque alle battaglie, alle ritirate, agli assedi, alle guerre, come si pone dinanzi alla fine (di un regno, di un impero, di una città-stato)?

Ritaglia anch’esso uno spazio, magari per scorcio, per allusione, a cosa la precedette, a cosa la seguì? La bellezza e l’importanza dell’ultimo lavoro di Duccio Balestracci “Stato d’assedio” (il Mulino) sono convinto che siano legate in buona parte anche alla capacità di porre l’“ora” dello stato di blocco di un insediamento – è questo nella sua essenza un assedio – in dialogo con il “prima” e con il “dopo”. Poi c’è tutto il resto. Ci sono nel saggio la precisione e la ricchezza delle informazioni e delle testimonianze; c’è la straordinaria capacità di muoversi con uguale disinvoltura tra la storiografia, la psicologia, l’antropologia; c’è il medesimo rigore nel raccontare un assedio che appartiene alla grande Storia e un assedio del quale la memoria è affidata a pochi e dubbi documenti; c’è, ed è una delle caratteristiche che meglio qualificano la scrittura di Duccio Balestracci, una cristallina chiarezza espositiva, che non esclude il colore e la passione. Eppure, a mio avviso, se “Stato d’assedio” è destinato a divenire un classico nell’ambito della produzione libraria – e lo scrivo ora che è appena uscito –, caro tanto al lettore comune quanto all’appassionato e allo studioso di storia, ciò è legato, torno a ripeterlo, a qualcosa che si pone al di là (non in contrasto) dell’acribia, del dominio del proprio ambito di ricerca, dello stile.

E questo qualcosa non saprei con quale altra parola chiamarlo se non con umanità, un’umanità, sia chiaro, scevra di ogni sentimentalismo, con la quale l’autore si accosta ai molti assedi dell’antichità e ai pochi assedi dell’età contemporanea, agli assedi che una volta sola cinsero le mura di una città e a quelli che, invece, si ripeterono nel tempo (Smolensk, Otranto, Belgrado, Gvozdansko).  L’angoscia, l’incertezza di una comunità, il sentirsi in balia degli eventi, il tentativo di fingere o ricreare una normalità apparente in una situazione eccezionale e drammatica, quale è sempre l’assedio, si sottraggono alla comprensione se non vengono messi in relazione, come fa con intelligenza e sensibilità Duccio Balestracci, con la pace, con “le opere e i giorni”, con la stabilità, con la prosaica e riposante quotidianità. Lo shock dell’assedio, il trauma dell’assedio, ancor prima che esperienze legate all’irruzione del nuovo, sono esperienze generate dalla fine di un mondo fatto di consuetudini e di ripetizioni. Flavio Giuseppe ricorda che del tempio di Gerusalemme, che andò distrutto durante la conquista della città da parte dell’imperatore Tito, rimase in piedi soltanto il muro di cinta occidentale del cortile esterno (quello che oggi viene denominato “muro del pianto”). A volte è andata peggio, e non è rimasto nulla, neppure un relitto.  Sono convinto che Duccio Balestracci abbia scritto soprattutto per chi la Storia ha travolto, cancellato, dimenticato. Il passo che segue è tratto dall’Introduzione.             

“Ci sono soldati che salgono furiosamente con le scale brandendo spade; altri che difendono le mura; ci sono fiamme che si alzano; minacciose bocche di fuoco puntate le une contro le altre dai due versanti; ci sono gli occhi sbarrati dei cavalli nel mezzo della battaglia e i gesti imperiosi dei comandanti che ordinano l’assalto. È l’assedio, anzi: sono i suoi aspetti drammatici e drammatizzati che emergono dall’iconografia che narra un assedio. Sono le immagini che trovano riscontro in forma di scrittura nelle pagine della letteratura o nei memoriali dei testimoni: i momenti di gloria esibiti all’occhio dell’osservatore e del lettore. Il resto è silenzio. Il resto manca e non è, di regola, nemmeno alluso. E il resto che manca è ciò che c’è prima e dopo l’assedio e in parallelo alle gesta gloriose che entreranno nella storia. In poche parole: manca da capire come si può misurare lo shock (condizione valida per gli assediati quanto per gli assedianti) e come si riscrive la vita dopo la “catastrofe”, materia che, in genere, nei libri è elusa o che a essi, tutt’al più, timidamente si affaccia appena”

Duccio Balestracci, Stato d’assedio, il Mulino, Bologna 2021

 

a cura di Francesco Ricci