Chi ha detto che è troppo tardi?

Un amore giovanile che consuma i suoi ultimi attimi sulla strada di ritorno dalla discoteca, annebbiato dai fumi dell’alcol. Per la protagonista, però, non è troppo tardi.

Mi sono svegliata questa mattina con la sensazione di aver vissuto un incubo lungo una settimana.
Eravamo in discoteca. C’erano tutti i tuoi amici, quelli tanto per bene che mi hanno sempre dato i nervi, e c’eri anche tu, i capelli rossi scompigliati come al solito, gli occhi verdi vigili, le labbra di quel colore rossastro che ben si intonava alla nuova tinta; ad inizio serata eri già lì a tenermi per i fianchi per evitare che io barcollassi e finissi addosso a qualche ragazzo dalle cattive intenzioni.
Mi dicevi che era da irresponsabili mandare giù tutto quell’alcool, ma non ti azzardavi a prendermi per un polso e trascinarmi fuori con la forza perché era accaduto anche altre volte che, una volta fuori dal locale, io ci rimanessi male come una bambina a cui è appena caduto il gelato, ma i genitori non vogliono comprargliene un altro; e dicevi anche di odiare quell’espressione da cucciolo ferito perché rendeva te debole e me costantemente vincitrice.
Ti guardavi intorno con circospezione, guardandomi le spalle: quando eri diventato la mia guardia del corpo non lo sapevo con precisione, con il tempo ero finita per dimenticare alcuni dettagli della nostra relazione. Non sapevo neppure cosa ti impedisse di abbandonarmi in mezzo alla folla e tornartene a casa, l’unico luogo in cui ti sentivi al sicuro dai pericoli esterni.
Dicevi che dovevi proteggermi perché io non ero in grado di badare a me stessa ed io mi arrabbiavo e mi dibattevo per liberarmi dalla tua presa divenuta improvvisamente forte. E poi, eccomi di nuovo al bancone a chiedere l’ennesimo tris di vodka mentre tu mi scrutavi con uno sguardo a metà tra il preoccupato e l’arrabbiato. Mi avevi concesso fin troppo:

era davvero arrivato il momento di tornare a casa.
« Questa è l’ultima volta ti riaccompagno a casa! », gridavi mentre mi spingevi in macchina e chiudevi di scatto la portiera. E non parlavi durante il tragitto, te ne stavi in silenzio, con gli occhi chiari fissi sulla strada poco illuminata.
« Dai, Andrea, mi lasci guidare? Solo cinque minuti, che vuoi che siano. Il mese prossimo avrò anche io la patente! »
Sentivo la razionalità che non avevo mai posseduto scivolarmi ancor di più tra le dita mentre mi sporgevo ad afferrare il volante. L’alcool cominciava a fare il suo effetto e lo stomaco mi bruciava così tanto che avevo come l’impressione che un enorme drago sputa fuoco vi dimorasse divertendosi a bruciare le pareti della propria casa.
E tu, esasperato, continuavi a dirmi di stare buona, di dormire, di tenere le mani lontano dal volante.
« Smettila! Così ci farai andare a sbattere! Vuoi ancora tornare a casa sana e salva? E allora lasciami guidare in silenzio. »
Non contenta della risposta sbuffavo e me ne stavo con le braccia incrociate sotto il petto. Poi, con uno slancio maggiore obbedivo alla folle idea che la mia mente aveva partorito già da un po’. Mi sporgevo dal sedile e allungavo le braccia per impossessarmi una volta per tutte del volante e tu, nel panico più totale, provavi ad allontanarmi senza staccare le mani da esso.
« Che diavolo stai facendo?! »
Non so cosa dicevi dopo perché una luce bianca invadeva il mio campo visivo e mi risvegliavo direttamente il giorno successivo con un terribile mal di testa, e sopra ed intorno a me solo pareti completamente bianche e sconosciute.
Non potevo muovermi: avevo una gamba ingessata e ferite doloranti su tutto il corpo. Qualcuno mi diceva “Bentornata”, qualcun altro piangeva come fosse ad un funerale.
Ed erano proprio quelle lacrime a nutrire il sospetto che era a te che era successo qualcosa, che eri stato tu il più sfortunato.
« Dov’è? Dov’è », chiedevo già disperata, guardandomi intorno con lo sguardo smarrito e folle.
Solo quando un uomo in camice bianco entrava nella sala con quella faccia scura che avevo visto altre mille volte nei film drammatici, capivo che tu non ce l’avevi fatta, che te n’eri andato, che alla fine mi avevi abbandonato davvero, che tu avevi protetto me ma io non ero riuscita a proteggere te.
E così passavano i giorni e la realtà cominciava a sbiadire sempre più, come se la osservassi dietro da vetri sporchi, come se quella non fosse la mia vita.
Ricordavo poco e niente del tuo funerale, solo lacrime, lacrime e un insensato discorso in cui qualcuno riuscì persino a vederci un po’ di amore.
Ricordavo, invece, più che bene qualche sera dopo quando, nuovamente ubriaca ed esposta ai peggiori giudizi ed insulti altrui, ti inviavo dei messaggi per chiederti di venirmi a prendere, per avvisarti che avevo bisogno di te e della tua protezione, che mi sentivo scoperta e non potevo tornare a casa da sola perché non sapevo ancora guidare bene.
E tu non rispondevi.
Il numero di messaggi senza risposta aumentava ed io pensavo che tu fossi uno stronzo e non volessi più proteggermi.
Poi, finalmente, mi sono svegliata con la fronte madida di sudore e il numero di messaggi senza risposta è arrivato a venti.
E’ stato allora che ho capito: è tutto vero, te ne sei andato davvero e non mi hai ancora insegnato a badare a me stessa. Egoista.
E’ sempre stato questo ciò che volevi, non è vero?
Volevi che imparassi a cavarmela da sola, ma non posso.
Non sono nata per questo.
Sono nata per morire, proprio come te.
Ho preso una foto a caso dal nostro album e ho notato che la parte in cui eri tu è stata fatta a pezzi.
Non è giusto: non sei tu quello che ha bevuto, non sei tu quello che ha tradito e poi è stato perdonato come se nulla fosse accaduto, non sei tu il cattivo della storia, sono io.
Sono sempre stata io.
Me li merito tutti questi ricordi che non mi lasciano in pace, merito questa costante sensazione di vuoto che mi attanaglia lo stomaco, merito di essere additata da tutti come l’insensibile che due giorni dopo la morte del proprio ragazzo era di nuovo ubriaca.
Merito anche la morte?
Questo non lo so. Non l’ho mai vista come una cosa negativa, in fondo. Non è forse la liberazione dalle sofferenze terrene?
Ma sai che c’è? Sono sempre stata un’egoista e lo sarò ancora,

per l’ultima volta.
Ho deciso di morire, proprio come te, anche se tu non hai avuto la possibilità di scegliere.
Avverto solo ora il desiderio di dirti tutto quello che ho taciuto per un anno intero a causa di questo stupido orgoglio che mi porto dietro come un marchio indelebile.
Ho scelto di morire perché devo chiederti di nuovo perdono e provare ad essere io, per una volta, a donar protezione e non tu.
Ho scelto di morire per dirti per la prima volta che ti amo e voglio diventare la ragazza responsabile che non hai mai avuto.
Chi ha detto che è troppo tardi?
Non dovrai aspettare ancora. Ho già preso l’auto di papà, sto andando in discoteca, sto venendo a prenderti mentre Lana del Rey canta per l’ultima volta la mia canzone preferita alla radio.

Francesca Barracca