Barbara Cucini, Diario di Matteuccia

“Diario di Matteuccia” di Barbara Cucini (Siena 1970) è un romanzo storico e lo è in senso lukacsiano. Il passato, infatti, è visto come la preistoria del presente, come l’epoca che aiuta a comprendere la contemporaneità, nelle sue luci e nelle sue ombre. Ma di quale passato si tratta? Di quella estrema propaggine del Medioevo che in letteratura già viene nominato inizio dell’umanesimo.

Ci troviamo, infatti, in Umbria, a Todi, nei primi decenni del XV secolo, che vedono il progressivo affermarsi del capitano di ventura Andrea Fortebracci da Montone (e della sua signoria) sino alla sua morte avvenuta in battaglia, contro i soldati dello Sforza, nel giugno del 1424. È un’età, questa, nella quale la superstizione convive con una maniera già più serena di vivere la fede religiosa, l’alimentazione finalizzata alla mera sopravvivenza fa posto, non solo nei nobili e nei borghesi, all’amore per la buona tavola, l’esercito cittadino è sostituito quasi ovunque da eserciti mercenari, l’interpretazione allegorica dei testi viene prima affiancata, poi superata dall’interpretazione letterale degli stessi, il gusto per le cose belle (vesti, abitazioni, arredi) conquista sempre più spazio.

Ma, soprattutto, è una età contraddistinta sul piano della politica estera dal continuo formarsi e dall’improvviso sciogliersi delle alleanze, con un’evidente ricaduta sull’assetto territoriale della penisola italiana; sul piano della politica interna da un’elevata instabilità, complici congiure, tradimenti, risentimenti personali mai estinti. Non sorprende affatto, dunque, che in un simile contesto i più deboli siano anche coloro che più di frequente si trovano a soffrire, a patire.

È quanto accade alla protagonista del romanzo, Matteuccia di Francesco, nata a Ripabianca poco prima del 1400 e uccisa con l’accusa di stregoneria il 20 marzo 1428. Donna e, in quanto tale, considerata dal maschio alla stregua di un mero possesso, colta, e perciò critica o, comunque, scettica dinanzi ai pregiudizi, istruita nella pratica medica da un ebreo, Maestro Isaac, il quale, al pari del popolo cui appartiene, agli occhi di molti sembra recare su di sé la colpa di deicidio, incline alla comprensione e al perdono in un mondo in cui il sospetto e la vendetta la fanno da padroni, Matteuccia appare la vittima innocente e predestinata del diffuso clima di intolleranza, superficialità, violenza, che non risparmia neppure Todi e Perugia.

Ed è proprio qui che emerge la componente lukacsiana del romanzo di Barbara Cucini, il quale si fa strumento di comprensione dell’Italia attuale, dove a regnare continuano a essere in ambito politico l’arte del compromesso, la litigiosità, la corruzione, la menzogna, la supponenza, in ambito sociale l’assimilazione del diverso al delinquente, la ferocia contro la donna, l’egoismo: se “la preistoria italiana” è stata quella sapientemente mostrata nel “Diario di Matteuccia” non sorprende affatto che la “storia italiana” somigli sempre più a un viaggio verso il termine della notte. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale e introduce la figura della protagonista e del suo maestro.              

“AD 1400. La peste portava via buoni e cattivi, poveracci e signori. Moriva la dama di Compagnia dei Chiaravalle, Annuccia di Ripabinca, che undici anni prima era divenuta madre di una florida bambina, in circostanze equivoche.

Voci malevole indicavano il padre in uno dei Chiaravalle, Matteo, che, con buona pace della moglie, aveva inizialmente tenuto dama e creatura presso il palazzo. Questo nonostante Annuccia fosse degnamente accasata con un buon uomo, Messer Francesco di Ripabianca.

Matteo e la moglie erano lontani da Todi a causa di dissapori e screzi con alcuni membri della nobiltà locale che avrebbero potuto pregiudicarne l’incolumità. Fra i sopravvissuti alla peste tre dei loro sette figli, accuditi dal fidato consigliere di famiglia nonché validissimo medico e cerusico Isaac di Abraham da Rieti, pure lui scampato alla morte. La famigliola del dottore purtroppo non si era salvata: era morta Gentile, sua moglie, erano morti Jacob, di dieci anni, Esther di otto e Rachele di tre. Lui ci era andato vicino, dopo dieci giorni di febbre altissime che lo avevano fatto considerare spacciato. La figlia di Annuccia, Matteuccia, si era salvata dal morbo che le aveva portato via la madre. E che per poco non si era portata via Isaac. Assieme a suo padre Francesco, Isaac era uno dei suoi affetti più cari.

La tragedia della perdita aveva unito i destini di Matteuccia e di Isaac, che avevano trovato immediato rifugio l’uno nell’altra. Per Isaac quella ragazzina vivace era la figlia inaspettata che il destino aveva voluto lasciargli accanto”.