Alberto Prunetti, Nel girone dei bestemmiatori

“Nel girone dei bestemmiatori”, il romanzo di Alberto Prunetti che conclude la trilogia working class, iniziata con “Amianto” e proseguita con “108 metri. The new working class hero”, è un libro di frontiera. Non già la frontiera che separa e che taglia fuori, bensì la frontiera che si lascia in continuazione varcare, attraversare, scordare. Debole frontiera, dunque, labile linea di confine tracciata sopra una vecchia cartina geografica più che dogana che controlla e che sorveglia. Né potrebbe essere altrimenti. Infatti, se c’è qualcosa che il Postmoderno ha insegnato, questo consiste proprio nell’idea che, quando si parla di generi letterari e di stili, la contaminazione e la mescidanza non solo sono sempre possibili, ma risultano anche auspicabili. E così anche nel “Girone dei bestemmiatori” le memorie familiari, l’analisi sociologica, la riflessione sul linguaggio, la storia letteraria si mescolano e convivono con grande naturalezza.

Il risultato finale è delizioso. La leggerezza e l’umorismo di certe pagine, infatti, si accompagnano al sentimento inevitabilmente intriso di malinconia per un’epoca della nostra storia che si è conclusa. La grande trasformazione degli anni Sessanta (attiva appare la lezione di Bianciardi e, ancor di più, di Pasolini) ha cancellato il mondo contadino e ha stravolto il mondo operaio. Nel giro di pochi anni, l’Italia ha assistito alla distruzione di un’intera cultura, quella preindustriale, senza che la perdita di certi valori sia stata risarcita.

Da ciò discendono sia lo spaesamento sia il vuoto interiore di tanti giovani di oggi: dalle rovine delle case si può ripartire e andare avanti – si pensi al secondo dopoguerra – da quelle dei principi e degli ideali no. Ad esempio, Renato, il padre della voce narrante, sapeva cosa fare i giorni lavorativi e sapeva cosa fare alla domenica (“La domenica mattina Renato si infilava nel vestito bono. Giacca, cravatta e cappello. Non andava a messa ma al bar sport a giocare la schedina”), e ciò che lui faceva era ciò che facevano anche tutti gli altri operai, poiché parole come appartenenza, classe, identità comune, non avevano ancora perso né senso né significato. Analogamente, anche la madre della voce narrante possedeva all’interno della famiglia operaia un ruolo, che era identico a quello di tutte le altre madri e mogli, che abbracciava tanto l’economia domestica (“È lei che si occupa dei soldi, Renato le consegna tutta la busta paga”) quanto la cura della casa e dei figli. Insomma, ciascuno aveva un posto ben preciso nel mondo, sapeva di occupare un posto ben preciso nel mondo, che non era legato semplicemente allo svolgimento di una professione, ma anche al possesso di valori e di modelli di comportamenti assoluti.

Di conseguenza, nel libro il linguaggio di Renato e di sua moglie, il linguaggio, cioè, di un saldatore e di una casalinga, divengono l’espressione di un’intera classe sociale e di una vivace comunità toscana (tra Baratti, Piombino, Rosignano Solvay), che al lettore appaiono lontane anni luce, fanno lo stesso effetto che può provare visitando il salotto della villa del Meleto di Guido Gozzano o la cucina della casa di Giovanni Pascoli a Castelvecchio.

Oggigiorno, perfino uno studente livornese farebbe fatica a comprendere alcune delle espressioni riportate nel capitolo “La storia della cassetta degli attrezzi” (“Il pane e la sassata”, “Sette tuo”, “Quello sembra fatto col pennato”, “Ora lo sganghero”, “Artista!”). Figuriamoci, poi, se conosce il significato di parole tecniche legate al lavoro degli operai in fabbrica (raccordo maschio-femmina, dado a cappello, guarnizione in gomma). La verità è che “Il potere ha distrutto”, come scriveva Pasolini nelle ‘Lettere luterane’, “ogni cultura precedente, per crearne una propria, fatta di pura produzione e consumo”. Il passo che segue è tratto dal “Prologo”, che introduce la figura di Renato.            

“Nel mezzo del camin della mi’ vita mi son trovato dentro a un sogno oscuro. Sognavo e sudavo, come un dannato del lavoro. Attraversavo una gora su una barcaccia dove Caronte, il nocchiero, bianco per antico pelo, aveva le fattezze del custode zoppo dei campi di calcio della mi’ infanzia. Mi guardava con occhi di brace, rimembrando un rigore contro il Venturina che avevo padellato tanti anni fa. Intimorito e incredulo, comincio a camminare per un sentiero è pieno di polvere rossa, puntellato da arbusti carbonizzati. Guadagno una piazzola di terra combusta, simile a una carbonaia dei boschi maremmani. C’è un tipo con una tuta blu e una maschera con le lenti offuscate. Tiene in mano una saldatrice. Appoggia gli elettrodi e la pinza a terra, poi si mette a cantare. ‘Ho trovato una nave che salpava / e ho chiesto dove andava. / Nel porto delle illusioni / mi disse quel capitano. / Terra terra, forse cerco una chimera / questa sera, eterna sera’. Una canzone di Piero Ciampi dedicata a Livorno. La canzone che cantava sempre lui… Solleva la maschera da saldatore. Ciao, brodo! Babbo! Che ci fai da queste parti? T’è saltata addosso la voglia di lavorà? Era l’ora… È davvero lì, è lui. Mi avvicino a renato pieno d’orgoglio, ansiose d’incontro, entrambe le mani protese. E gli dico: Sai babbo, ora la tu’ storia io l’ho scritta e la sanno tutti”. 

Alberto Prunetti, Nel girone dei bestemmiatori, Laterza, Bari-Roma 2020

a cura di Francesco Ricci