Agnese Pini, Un autunno d’agosto

Due nomi incorniciano il bellissimo romanzo di Agnese Pini “Un autunno d’agosto”. Un nome di donna, Clara (“Devo partire da Clara”). Un nome di uomo, Roberto (“Roberto Oligeri mi sorrise e io chiusi gli occhi, per trattenere il suo sorriso, al sicuro, sotto le ciglia”). Clara è una bambina di sette anni, e sebbene il lettore nel corso della narrazione apprenda che diventerà grande, si sposerà, abiterà a Fosdinovo, avrà due figli, morirà più che ottantenne nel 2018, per lui, tuttavia, resterà soprattutto una bambina di sette anni. Roberto, invece, è un uomo ormai anziano quando fa il suo ingresso in scena in “Un autunno d’agosto” con l’invio, nell’estate del 2019, di una mail di congratulazione proprio ad Agnese Pini, in occasione della sua nomina a direttrice de “La Nazione”. Certamente anche lui è stato un bambino come lo fu Clara, è cresciuto, si è fatto ragazzo, giovane, uomo, ha avuto un lavoro, una casa, una famiglia, ha attraversato gli anni della ricostruzione dell’Italia, del boom economico, della contestazione, gli anni di piombo, il passaggio dalla prima alla seconda repubblica, gli inizi del terzo millennio. Eppure, per il lettore, lui resta soprattutto l’uomo in là con gli anni. La bambina e l’anziano. Clara e Roberto. Se mi soffermo su questi due personaggi, se mi soffermo sull’incipit e sull’explicit del romanzo, è perché sono convinto che sia proprio la cornice a rivelare quello che di “Un autunno d’agosto” costituisce il significato profondo. Quest’ultimo non deve essere ricercato nella documentata ricostruzione di quanto accadde a San Terenzo Monti il 19 agosto 1944, quando 159 persone – molte le donne, molti i bambini – vennero massacrate dai nazifascisti e colorarono per giorni di rosso col loro sangue il terreno. Tantomeno deve essere collocato entro i confini di una dolente memoria familiare dell’autrice, che in questo lembo d’Italia, posto tra la Liguria, l’Emilia e la Toscana, perse la sua bisnonna, Palmira.

Certamente “Un autunno d’agosto” è anche questo ed è anche quello, come l’avvertenza “Al lettore” lascia chiaramente intendere. Soprattutto, però, il romanzo di Agnese Pini, e di ciò sono profondamente convinto, è un monito a non scordare mai il senso profondo e autentico che la parola “morte” possiede, specie se si tratta di una morte provocata. Oggigiorno per tutti noi è più difficile di un tempo comprendere quale sia tale senso. Investiti, come siamo, da una massa imponente di informazioni e di immagini – le non-cose che sono al centro dell’ultimo saggio di Byung-Chul Han –, riusciamo a prestare attenzione al contenuto del messaggio unicamente se rimanda ai grandi numeri (si tratti di una strage, di un attentato, di uno scontro armato, ma anche di una catastrofe naturale). Il rischio è quello di scordare che ogni grande numero si compone di tante unità e che ogni unità, vale a dire ogni esistenza, è unica, irrecuperabile, irripetibile. Non solo. Ma ogni esistenza è un mondo di memorie, di affetti, di legami, fragili eppure necessari perché la vita di ciascuno di noi non si riduca a un semplice e privato transito. Ecco perché ogni morte di uomo trascina sempre con sé, nel vuoto della disperazione e della solitudine, tante altre vite: perché a morire non è mai una persona sola; a morire sono anche coloro che con lei intrattenevano un vincolo di tenace amore. Ed è questa la ragione per la quale quel giorno d’agosto del 1944 – questo ci ricorda, questo ci mostra il libro di Agnese Pini – a sparire dalla faccia della terra – vennero tagliati di netto come spighe di grano – non fu un numero considerevole di civili. A morire furono 159 persone, ognuna diversa dall’altra, pur essendo ognuna uguale all’altra nell’appartenere agli ultimi, agli umili, agli innocenti, insomma a quella vasta schiera di creature, che delle ingiustizie della Storia, come sapeva bene Elsa Morante, sono le vittime predilette, in ogni tempo, in ogni luogo. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale.                

“Devo partire da Clara. Tra tutte le storie che raccontano quella storia, è l’immagine di Clara la prima che torna alla memoria. Quando gli adulti ne parlavano, abbassavano la voce in segno di rispetto, o di pudore. Così la voce diventava un sussurro. C’era questa bambina, dicevano, si chiamava Clara, Ogni volta la sua storia sembrava raccontata per la prima volta, sempre con lo stesso stupore. Clara sopravvissuta, l’unica sopravvissuta. Dicevano: le hanno sparato alle gambe, l’hanno graziata, forse quel tedesco che doveva finirla non ce l’ha fatta. Un gesto d’umanità. C’è sempre la pretesa di un gesto d’umanità anche là dove l’umanità si è interrotta. Persa, cancellata. Non il caso, quindi, ma l’umanità. Così Clara viveva nella mia immaginazione e nei miei incubi. La guerra era Clara, ed era il passo marziale dei soldati. Ecco il mio incubo più ricorrente, da bambina: il passo marziale dei soldati tornava nelle mie notti a rivelare ogni angoscia infantile. Clara invece era l’umanità, era la speranza. E dunque c’era questa bambina, si chiamava Clara Cecchini, aveva sette anni. Era la figlia dei mezzadri della fattoria. Quando la mitraglia iniziò il suo lavoro, lei cadde a terra, colpita dai proiettili a un piede, a un braccio, allo sterno. Dicevano gli adulti: è rimasta sempre un poco zoppa. Quando i soldati passavano in rassegna i corpi per scovare qualcuno ancora vivo e sparargli alla tempia, curvi a controllare che nessun gemito si levasse sempre più flebile dal corpo ormai rosso di sangue, a Clara non spararono”

Agnese Pini, Un autunno d’agosto, Chiarelettere, Milano 2023

 

a cura di Francesco Ricci