Agata Florio, Aspettando te. Rimettersi in gioco

Non solamente la gioia, ma anche il dolore andrebbe condiviso. L’addio, non solo l’innamoramento, la sconfitta, non solo la vittoria. Eppure, accade di rado, a tal punto forte è l’azione di chiusura, chiusura in noi stessi intendo, che la sofferenza esercita. “Aspettando te. Rimettersi in gioco” di Agata Florio è un libro che mostra e ricorda al lettore che la condivisione non è solamente una delle possibilità che abbiamo di vivere la nostra dimensione sociale, ma anche che attraverso di essa passa la più compiuta realizzazione della nostra natura.

Agata Florio, infatti, ha raccolto con pazienza e partecipazione emotiva il racconto di Raffaele, un giovane toscano al quale nell’aprile del 1998 fu diagnosticata una forma acuta di leucemia. Fino a quel momento, la sua era stata una vita simile a quella di tante altre persone. Una famiglia solida alle spalle, un’adolescenza divisa tra rabbia e desiderio di crescere in fretta, la scoperta e le delusioni dell’amore, la scuola, l’importanza del gruppo dei pari, le prime esperienze di lavoro. Poi, un giorno, l’incontro con Laura, una donna di Chivasso, i primi viaggi insieme, in Italia e all’estero, la voglia di mettere su famiglia, l’attesa del primo figlio, il Natale in Piemonte dalla famiglia di lei, il Capodanno a Marina di Grosseto, dalla famiglia di lui. Fino a quando, a seguito di un prelievo del sangue di routine, venne fatta la drammatica scoperta che Raffaele era gravemente malato.

Da questo punto in poi, il libro diviene la cronaca – il referto – di quanto accade al protagonista e alla sua compagna, col primo che passa da una biopsia sternale a un ciclo di chemio a brevissimi soggiorni a casa, con la seconda che con grande forza d’animo porta avanti la gravidanza, fino alla nascita della piccola Ilaria, poco prima dell’ora di pranzo, il 29 agosto. Da ultimo, il trapianto di midollo osseo, che consente a Raffaele di tornare a una vita normale, insieme a quelle che da allora sono le donne della sua vita, Laura e Ilaria. Credo che proprio in questa duplice attesa, che per un tratto corre parallela, vale a dire quella di un figlio (per Laura), quella di un donatore (per Raffaele), riposi il significato profondo di questa storia di vita, che grazie alla sensibilità e alla bravura di Agata Florio si fa scrittura, si fa romanzo. L’attesa del nuovo, infatti, di ciò che venendo alla luce ridisegna il mondo, ricrea il mondo, e la conservazione, dunque il prendersi cura, di ciò che già è, già esiste, in questo caso l’uomo malato, l’uomo sofferente, sono due figure della socialità, intesa come coscienza di essere parte di qualcosa che ci sovrasta e ci trascende, ovvero l’umana “societas”.

L’amore dei genitori, l’amore di chi segue la gravidanza, l’amore di che presiede alla nascita costituiscono il lato in luce di un sentirsi partecipi della vita degli altri, che rinviene il suo lato in ombra, perché meno appariscente, perché a continuo contatto col pericolo estremo, nell’amore di un familiare che siede al capezzale, nell’amore con cui un medico o un infermiere – chi, insomma, è a contatto col malato – svolge la sua professione, nell’amore, che è pura gratuità, di chi dona una parte di sé per l’altrui salvezza. E per chi, come Raffaele, il protagonista del libro, e Agata Florio, l’autrice, hanno fatto esperienza, poiché entrambi genitori, del “venire alla luce” (il lato in luce) e, al contempo, si sono affacciati spesso, nei loro giorni di vita, sull’abisso mortuario e mortifero (il lato in ombra), condividere il dolore è, al pari del condividere la gioia, un gesto naturale, carico di saggezza e di bontà. Il passo che segue è tratto dal primo capitolo, “Marina di Grosseto”.                       

“‘Scendo a fare due passi. Ti occorre qualcosa, mamma?’ ‘No Lele, vai pure, non mi occorre nulla. Vai tranquillo. ’ Il tono della sua voce tradiva la sua ansia per me. Presi la giacca vento, chiusi piano la porta e mi avviai a fare la solita passeggiata. Un’altra stagione balneare a Marina di Grosseto su era appena conclusa, così come anche il mio ultimo lavoro. Riflettevo, facevo le mie considerazioni su ciò che accadeva puntualmente ogni anno, quando già dall’ultima settimana di settembre ogni località turistica sembrava chiudere le porte alla vita e ogni cosa si fermava. Ripensavo alla settimana appena trascorsa tra il caos dei campeggiatori in sosta nella pineta, alla musica proveniente dai bar dei bagni aperti fini a notte fonda. Ora tutto appariva nei toni grigio-azzurri di un quadro malinconico e per le strade deserte regnava il silenzio opprimente, che mi metteva addosso una certa inquietudine. Amavo camminare lungo la spiaggia soprattutto in inverno, stretto nel mio giaccone, anche se era solo una lunga distesa di sabbia, priva delle impronte lasciate dall’andirivieni chiassoso dei villeggianti. Nel ripensarci mi sembrava di vederle ancora le buffe e saltellanti gincane dei bambini tra i lettini che, per ristorarsi con un gelato, prendevano scorciatoie fino al bar, e per evitare di scottarsi i piedi con la sabbia rovente, puntavano con gli occhi il salto successivo in cerca d’ombra. Arrivai al porticciolo di Marina di San Rocco: avrebbe sicuramente giovato al mio stato d’animo godermi un altro tramonto infuocato e struggente” 

 

Agata Florio, Aspettando te. Rimettersi in gioco, Grosseto 2018