Rinasce la verbena. Sonetti in quarantena

Deliziosi i versi che Maria Luisa Bacci, Antonio Bianciardi, Francesco Burroni, Guido Burroni, Gabriele Castellini, Vera Castellini, Silvia Golino, Pietro Pallini, Ivano Scalabrelli, Antonio Tasso, Francesco Vannoni hanno scritto e riunito sotto il titolo di “Nasce la verbena. Sonetti in quarantena”.

Un titolo, questo, che è già in grado di orientare il lettore nella comprensione della materia del libro, se è vero che il pensiero della verbena a Siena non è mai disgiunto da quello che della città costituisce l’ombelico, vale a dire il Campo (“Ne la Piazza del Campo / ci nasce la verbena”), mentre il riferimento al periodo di quaranta giorni rimanda alle misure di confinamento e blocco che sono state adottate anche in Italia a causa del Coronavirus. Dunque, i novanta e passa sonetti in questione – alcuni dei quali presentano anche la variante formale del sonetto caudato (che prevede l’aggiunta, di una “coda” di versi dopo la sirma), da sempre impiegato come metro della poesia burlesca, polemica, di corrispondenza – sono da considerare a tutti gli effetti dei “sonetti claustrali” (dal latino claustrum “chiusura, luogo chiuso, prigione”), in quanto hanno visto la luce al chiuso di una stanza (cucina, salotto, studio) e di quella chiusura obbligata soprattutto parlano.

Lo fanno con leggerezza, con spirito divertito. Il dovere indossare la mascherina (“Ognuno ormai è tutto mascherato / ma non per fare festa a carnevale”), il non poter andare dal parrucchiere (“Oh ragazzi, ci voleva anche questa / tutti i barbieri ‘hiusi come tanti”), il fare la spesa (“Stamani e’ so’ ito a fa’ la spesa / dal fruttarolo de la Valdichiana”), l’ascoltare in televisione gli aggiornamenti sull’andamento della pandemia (“Siamo qui in casa solitari e mesti / guardando la TV e telegiornali”), il non avere accesso a un parco cittadino (“- Mi dici come mai ‘un c’è nessuno? / È du’ mesi che qui ‘un ci gira gente -”), forniscono, infatti, altrettante occasioni per ricavare, grazie all’intelligenza e all’ironia, da una condizione oggettivamente pesante e fastidiosa un motivo di allegria e di spensieratezza.

Il lettore sfoglia le pagine, rincorre i versi, si ritrova nelle situazioni descritte, sorride. La sua, però, non è mai una risata liberatoria. Nessuna cancellazione della realtà va in scena, nessuna sostituzione della stessa con una realtà “altra”, caricaturale, buffonesca è in atto. Al contrario, il dato di partenza urtante e avvilente – lo stare per giorni e giorni chiusi in casa – non è mai eluso, non è mai scordato: insomma, la voglia di distrarre e dilettare non cancella la riflessione e il ragionamento.

E ciò spiega bene perché non si produce alcun attrito con quei sonetti (penso, ad esempio, a quelli di Ivano Scalabrelli) nei quali estremamente contenuta e trattenuta appare la vis comica, mentre una sottile tristezza si accampa al centro della pagina, originata dalla consapevolezza che certi appuntamenti – con la Festa, con gli amici più cari – sono oramai andati perduti e dall’evidenza di una fragilità connaturata all’uomo, che nessun progresso materiale e tecnologico può cancellare. Il sonetto che segue, intitolato “Come il Boccaccio”, è di Francesco Burroni, il quale ci ricorda che senza la poesia il mondo è più vuoto, più freddo, più inospitale.                           

Certo che è stato proprio un periodaccio

chiusi in casa mattina giorno e sera

e anche se fuori era primavera

ne’ nostri cuori si sentiva il diaccio

ma come fece un tempo anche il Boccaccio

quando arrivò la peste quella nera

noi col pc o co’ la penna a sfera

ci siamo messi a fa’ qualche… versaccio

perché, si sa, ‘un c’è peggio malattia

anzi dirò di più peggio tragedia

che ‘l mondo resti senza la poesia

così come ‘l Boccaccio co’ le novelle

e l’Alighieri co’ la su’ Commedia

s’esce anche noi… a riveder le stelle.

 

AA.VV., Rinasce la verbena. Sonetti in quarantena, Betti, Siena 2020

a cura di Francesco Ricci