Alessandra Cotoloni, Taxi Milano25

Alessandra Cotoloni è scrittrice dell’ascolto. I suoi libri nascono dal desiderio e dall’attitudine a raccogliere e decifrare le parole che un giorno si fecero racconto. Da questo punto di vista, la sua è una letteratura di secondo grado. Una narrazione della narrazione, una narrazione condotta a partire dalla narrazione. È stato così per “Il diario di pietra”, è stato così per “Salterello”, è stato così per “Con gli occhi aperti”. Ed è così anche per l’ultima sua opera, “Taxi Milano25”, edita da San Paolo e prefata da Simone Cristicchi. Ma c’è una differenza, stavolta, non di poco conto. Mentre nei tre lavori precedenti la narrazione, da cui procedeva la scrittura di Alessandra Cotoloni, era una narrazione affidata o alle immagini (nel caso di “Salterello”) o alla parola scritta (nel caso di “Il diario di pietra” e di “Con gli occhi aperti”), in “Taxi Milano25” è la parola orale, la parola detta, la parola pronunciata – l’omerica “alata parola” – a offrire lo spunto di partenza. “Taxi Milano25”, infatti, è il racconto di un racconto – dunque siamo sempre all’interno di una “letteratura di secondo grado” – dove la parola “racconto” possiede un duplice significato.

Da un lato, Alessandra Cotoloni dà forma artistica alle storie che Caterina Bellandi (zia Caterina) le ha narrato, storie che abbracciano grosso modo un ventennio di vita, personale e collettiva. Dall’altro, l’autrice trascrive le emozioni suscitate dall’ascolto e nell’ascolto, e in questo “trascriverle” le attraversa anche (d’altra parte, ancora riconoscibile è nel verbo italiano “trascrivere” il senso di “attraversamento”, di “oltrepassamento”, che la preposizione latina “trans” possiede). Il convincente risultato finale è un libro che accoglie al suo interno tanto le vicende raccontate (da zia Caterina) quanto le risonanze sentimentali che queste hanno suscitato nell’animo di chi le ha ascoltate (Alessandra Cotoloni). Ora, sia le prime – le vicende – sia le seconde – le risonanze sentimentali – si originano (e di questo parlano) dalla più inquietante delle zone d’ombra che la realtà contiene: il dolore. Non il dolore, però, che nasce da una colpa o dalla malvagità dell’uomo, bensì il dolore che non ammette né spiegazione né giustificazione, dal momento che si presenta sotto forma di male incurabile, che consuma l’organismo e l’esistenza dell’uomo maturo (come è accaduto al compagno di zia Caterina) come il bambino (e tanti sono i bambini che zia Caterina ha incontrato e continua a incontrare). Dolore, dunque, come scandalo, come bestemmia, come crudele e assurda gratuità.

Eppure, questo dolore, che al pari di ogni dolore fa apparire con evidenza l’inaggirabile individualità del nostro essere nel mondo – nessuno è sostituibile nel proprio dolore, come nessuno è sostituibile nella propria morte – non è solamente un elemento di chiusura, ma anche un fattore di apertura. Ogni sofferente, infatti (e su questo il filosofo Salvatore Natoli ha scritto a mio avviso pagine definitive) tende a “tradire” il proprio dolore, nel senso che lo “trasmette”, lo “porge”, lo “lascia intravvedere”. Insomma, il dolore è sia esperienza individualizzante sia esperienza sociale. Ma davanti a Caterina Bellandi, così come davanti a tante donne e tanti uomini impegnati in una corsia d’ospedale o in un villaggio dimenticato o in una misera periferia di una metropoli (Taxi Milano25 parla anche di loro), è la dimensione corale, comunitaria, plurale della sofferenza, che riafferma la sua pura grandezza. Il passo che segue, tratto dal “Prologo”, dimostra l’abilità di Alessandra Cotoloni nel creare l’atmosfera, quasi fiabesca, al cui interno prende lentamente corpo la figura del personaggio di Caterina.      

“La piuma rosa, piccola tra le altre, ondeggia lieve. Sospesa nell’aria tersa della mattina, pare aggrapparsi alle altre in quel respiro del mondo che è entrato energico nella stanza, quando Caterina ha aperto la finestra. Le piume più grandi, dai colori sgargianti, hanno sorriso alla piccola piuma e insieme hanno salutato il mattino dal magico cappello di paglia in cui sono adagiate come fili d’erba su un prato. Il cappello scalpita sulla sedia accanto al letto e lei lo osserva: la zia parla con i colori. La vestizione richiede del tempo e Caterina non lo lascia scivolare insignificante tra le dita, ogni attimo è prezioso. Ora lo sa. Accompagna i movimenti con gesti divenuti un rituale e i minuti le sono grati per l’importanza che riserva a ognuno di loro, accarezzandoli come delicati oggetti preziosi. Non lo contrasta il tempo, ci va a braccetto, lo sa quanto valga ogni singolo attimo e lo respira come si fa con le varie fragranze dei profumi. Il vestito, vivacemente colorato, non lo indossa per vezzo o vanità, quello è ormai divenuto la sua uniforme, alla stregua della tonaca per il prete o del camice bianco per il medico. Insieme a quello, il mantello, il cappello di paglia che continua a guardarla da sopra la sedia, le collane, i campanellini. Infine una grande conchiglia, come un immenso bottone, unisce i due lembi del mantello sul petto, alla pari dei pellegrini di un tempo quando partivano per Santiago di Compostela” 

 

Alessandra Cotoloni, Taxi Milano25, San Paolo, Milano 2021

 

a cura di Francesco Ricci