Trentaquattro anni fa la tragedia dell’Heysel, il ricordo di Riccardo Gambelli: “Una carneficina”

Sono passati trentaquattro anni, ma il ricordo è indelebile. Soprattutto per chi quella tragedia, il 29 maggio 1985, l’ha vissuta. Da vicino. Per chi era lì, in quella maledetta “curva Zeta” dello stadio Heysel di Bruxelles. Finale della Coppa dei Campioni: sfida fra Juventus (era le Vecchia Signora di Platini) e Liverpool per il trono d’Europa. Doveva essere una festa sportiva, finì in tragedia: una storia drammatica che segnerà un’epoca sportiva e non. E che segnerà chi l’ha scritta, suo malgrado. Trentanove morti, di cui trentadue italiani, seicento feriti, a causa del crollo di un muro del (vetusto) impianto di Bruxelles, che non resse la pressione dei tifosi inglesi, gli hooligans, pronti ad aggredire i vicini tifosi bianconeri.

Incredulità, sgomento, pausa. E grande freddo. Con queste parole, Riccardo Gambelli, senese e autore, fra gli altri, del volume “Coriandoli bianconeri”, in cui un capitolo (dal titolo “Magico tragico Heysel”) è dedicato proprio a quella giornata, ricorda quella giornata. Era lì, in quel settore maledetto. Ha vissuto quegli attimi così drammatici, che rimangono incisi nella mente e, soprattutto, nel cuore. “Partimmo – racconta – in automobile con gli amici Andrea Trapani e Antonello Perrella. Tre giorni a Bruxelles, per vedere la partita e rimanere la notte. Il settore ‘zeta’ era una curva accanto a quella degli ultras del Liverpool, naturalmente al momento dell’acquisto del biglietto non sapevamo nulla”. Già questo appare incredibile: mettere a contatto juventini e inglesi. Non solo: “La cosa incredibile fu che la rete che ci separava dagli inglesi era una rete da polli, forse messa lì qualche giorno prima. E accanto avevamo gli hooligans, mentre noi eravamo tifosi semplici, famiglie, bambini, ragazzi”. Doveva essere un sogno da tifosi, si trasformò in un incubo. “E’ un ricordo indelebile – spiega – E tutto che cominciò in modo incredibile. In campo prima della partita andarono due squadre di bambini, una in maglia bianca e una in maglia rossa. Noi facevamo per i bianchi, ovviamente, gli inglesi per i rossi. Cominciarono gli sfottò reciproci, poi un gruppo di juventini scavalcò stupidamente la rete, rubò un vessillo e lo bruciò. Da lì cominciò la pressione degli inglesi sulla rete e si capì che quella avrebbe ceduto. Scattò il panico”.

La paura, quella che portò la fuga degli juventini verso le vie di uscita: in uno stadio inadeguato, però; e probabilmente con le forze dell’ordine e di sicurezza impreparate a far fronte a tale situazione improvvisa, derivata da un’organizzazione insufficiente. “Vedendo gli inglesi premere sulla rete – racconta Gambelli – dissi subito ai miei amici di spostarci verso l’uscita, si avvertiva il pericolo, si avvertiva la tensione. Ma il cancello principale era occluso da chi stava entrando, per cui ci dirigemmo verso quel tristemente famoso muro. Non so come, io riuscì a salirci sopra e poi a scendere, scavalcandolo abbastanza agevolmente. I miei due amici rimasero nel settore, drammaticamente vidi tutto: l’entrata nel settore dei tifosi inglesi, la fuga delle famiglie juventine, le persone che si accalcavano e si stringevano una con l’altra. E poi il crollo del muro. La morte in faccia. Quando per fortuna ritrovai i miei amici ci abbracciammo come fossimo reduci di guerra”.

“Dopo l’intervento della polizia, anche a cavallo – ricorda ancora Gambelli – ci spostammo in tribuna numerata. Riuscimmo a entrare in contatto con le nostre famiglie a Siena solo grazie a Pier Cesare Baretti (che poi diventerà presidente della Fiorentina, ndr) che ci riconobbe dall’accento come toscani, uno dei miei due amici riuscì con lui ad andare in tribuna stampa e da lì avvertire le famiglie, rassicurandole. Giravano voci su ottanta morti”. I morti furono comunque tanti, troppi per una partita di calcio. “I giocatori juventini che scesero in campo – chiosa Gambelli – ci dissero chiaramente che erano costretti a giocare per motivi di ordine pubblico, anche di fronte alle nostre preghiere di non giocare. Non oso in effetti pensare a cosa sarebbe successo se non si fosse giocato quella gara, gli ultras juventini erano inviperiti, sarebbero andati a caccia degli inglesi da subito. Giocare era l’unico rimedio. Fu partita vera, ma io ricordo più che altro il grande freddo: c’era vento, ma non era solo un freddo all’esterno….Una sensazione che mi è rimasta dentro”. “Dopo la vittoria della Coppa – conclude Gambelli – la Juve fece il giro d’onore, i tifosi inglesi furono immediatamente evacuati e solo dopo due ore fu permesso agli juventini di uscire per evitare scontri. Noi dovevamo rimanere ancora una notte, ma scappammo subito recuperate le poche cose in albergo. E’ stata una carneficina, qualcosa che ti segna per tutta la vita”. Trentanove persone partite per vedere una partita di calcio, mai tornate. E una data, quel 29 maggio 1985, che rimarrà nella tragica storia del calcio internazionale.

A.L.