Siena di mille cose è piena – il Santa Maria e la grancia dimenticata di San Giusto

Che l’ospedale di Santa Maria della Scala dovesse gran parte del suo potere economico dalle sue numerose fattorie sparse sul territorio, le cosiddette grance, è cosa nota. Fattorie più o meno grandi, più o meno fortificate, più o meno produttive, tutte di proprietà dell’ente ospedaliero che le gestiva e ne otteneva benefici economici in termini di “affitti”, di produzione di granaglie e altri prodotti, di gestione degli uomini che lì vivevano e lavoravano per l’ente senese. Sia uomini che donne, perchè alle donne delle campagne affidava a baliatico i bambini che erano stati abbandonati allo stesso Santa Maria della Scala. Una di queste è la grancia di San Giusto, nel Comune di Murlo, vicino a La Befa. Resta di proprietà del Santa Maria fino al 1767, quando, su disposizione del granduca di Toscana, viene redatto lo “stato d’anime”, sappiamo che vi abitavano oltre 80  persone e che è “granciere” (cioè colui che gestisce la fattoria”) tal Valentino Rosi che vi abita con la sua famiglia.

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La grancia comprende i poderi Rigo Secco, Pian di Rocca, Poggio Cenni, Poggio Copoli, Mattioni, Campo Lungo, Gonfienti, Frascati e Beccarello, oltre al luogo detto Le Logge e ad alcune chiuse. Ma nel 1785 San Giusto viene alienata e venduta, come tutte le altre grancie, a causa delle disastrose condizioni economiche in cui era venuto a trovarsi l’antico ente assistenziale cittadino che, ormai, si sta specializzando come clinica ospedaliera cambiando totalmente la sua vocazione. I tempi stavano mutando velocemente e per San Giusto comincia un lento declino. Non avendo più la forza economica e sociale dell’ospedale alle spalle, posto anche in posizione lontana dai maggiori assi viari, si spopola e, lentamente, diventa un borgo vuoto, dimenticato. Oggi se ne respirano gli antichi fasti, un pozzo, elegante, conserva l’acqua come se la signora Maria (moglie del granciere) si recasse da un momento all’altro a riempire i secchi per preparare la cena, lavarsi, annaffiare l’orto. Si legge la struttura possente, le scale senza gradini che portavano ai granai per far salire gli asini e i cavalli con i sacchi di frumento. Restano le stalle con le mangiatoie, si legge quella che era la chiesa in una struttura riconvertita ad abitazione.

Il rosone, alle finestre laterali, lunghe, per far filtrare la luce in modo tale da illuminare ma invogliare alla preghiera. Si conservano l’antica abside e quello che era il campanile. E poi le abitazioni, i passaggi, gli archi. Fino a quando non alzi gli occhi e lo vedi, lì, il simbolo dell’ospedale, la scala sormontata dalla croce, come se il suo possesso, la sua presenza, il lungo manto protettivo esistesse ancora. Ed allora è come se i secoli non fossero passati, e vedi ciò che loro vedevano, lo stesso panorama, gli uomini che mietono nei campi, i ragazzi che aiutano, mentre il parroco, Francesco Rosi (fratello dell’ultimo granciere?) suona i Vespri perchè è l’ora di tornare a casa. Un altro giorno è finito. Sta a noi far sì che non scompaia del tutto, tra rovi ed edera e ortica, nell’oblio che porta con sé il tempo tra le sue pieghe.

Maura Martellucci