Rosanna Pavanati, Fari e acque

Rosanna Pavanati, Fari e acque, Siena, Betti, 2017

“A definire sul piano formale la poesia di Rosanna Pavanati concorrono tre elementi di fondo: 1) l’ampio ricorso a frasi ellittiche e allo stile nominale 2) la frequente presenza accanto all’“io poetico” di un “tu”, ora generico, ora, e più spesso, determinato 3) la sapiente aggettivazione. Per quanto concerne il primo aspetto, è possibile offrire un gran numero di esempi, tratti in egual misura dalle quattro raccolte, a conferma che tale struttura sintattica costituisce una costante importante: “Luna piena di una notte di luglio, / luce perlescente nel nero ferale / di nuvole a fiocco” (da Rinascite); “Attesa in un prato verde / sotto un cielo di nubi fuggitive” (da Vita); “Gemme rare / e pietre modeste / riflessi d’iride / scavati dalla terra” (da Gioielli); “Vortici di nubi nel cielo, / brandelli strappati / di ali grigie e infernali / tra azzurro e ori / offuscati” (da Pittrice di nuvole).

Il risultato finale è quello di una poesia eminentemente visiva, che prende forma più attraverso l’accostamento di frammenti del reale, originati da impressioni e da sensazioni, che non per mezzo di una costruzione logica e razionale, che stringa in unità gerarchica i dati dell’esperienza. L’io lirico, la cui presenza è ben segnalata sia dalla coniugazione verbale (“Ho comprato acquerelli”) che dalla morfologia del pronome di prima persona singolare (“Una regione a me sconosciuta”), è costantemente accompagnato da un “tu”, più raramente un “voi”, che finisce per controbilanciarlo, testimoniando eloquentemente che la poesia di Rosanna Pavanati nasce a contatto col mondo – il mondo delle cose, il mondo degli uomini – e che nel dialogo, non nel monologo – monologo che elude e serra – riposa la verità. Estremamente interessante risulta anche il colloquio che si svolge tra l’“io” e il “tu” in alcune liriche, come Donna gemelli e L’odore dell’inverno.

Tale colloquio, infatti, assolve il compito di portare alla luce lo sdoppiamento dell’io in un “io” che parla e un “io a cui si parla”, in un “io” che osserva e un “io che viene osservato”. E tuttavia non si genera tra le due dramatis personae alcuna frizione o contrasto, al punto che alla fine, a definire il rapporto che la poetessa ha tanto con se stessa quanto con gli altri, aiutano più parole come confidenza e cordialità che non sospetto, incomprensione, conflitto. Da ultimo, per quanto riguarda l’impiego dell’aggettivo (quasi sempre posposto al nome), si può osservare che è proprio su questo terreno – oltre che su quello della musicalità decrescente del verso –  che meglio si colgono le novità e i mutamenti intervenuti col tempo nella poesia di Rosanna Pavanati. Se, ad esempio, in Fari e acque è possibile imbattersi in sintagmi di ascendenza ermetica, come “testimone silente”, “tripode igneo”, “salvie odorose”, “labbra muliebri”, “cere tenaci”, “riti lustrali”, “mani febbrili”, “riverbero tiziano”, nelle raccolte successive incontriamo “mari freddi”, “luna rossa”, “orizzonte cupo”, “colli immoti”, “dolce compagno”, “tempera estiva”, “nubi fuggitive”, “suoni familiari”, “mandorle amare”, “gatti vagabondi”. In sostanza, l’aggettivazione tende a farsi meno imprevedibile e meno preziosa, recuperando un valore fondamentalmente denotativo e descrittivo – molto sollecitata è l’area del colore –, che tradisce la volontà di ripensare il linguaggio lirico in direzione di una maggiore chiarezza e comprensibilità, che a me pare un’ulteriore conferma della natura fondamentalmente e finalmente lieta e lieve del legame tra l’io e il mondo”. (Postfazione di Francesco Ricci a Rosanna Pavanati, “Fari e acque”, Betti Editrice)

“Alba”

Una lama di sole

rosata

nell’alba di novembre

invita alla giornata

più lieta,

ma nel cuore

bambagia a grumi

di malinconia.    

Rosanna Pavanati, Fari e acque, Siena, Betti, 2017

Rosanna Pavanati, Fari e acque, Siena, Betti, 2017

 

a cura di Francesco Ricci