Nicoló, Duccio e il senso delle cose: il Castellare, l’addio a Giovanni degli Ugurgieri

Nicolò, Duccio e il senso delle cose è la rubrica settimanale di giornalismo narrativo su Siena proposta da SienaNews. Gestita da due giovani, Nicolò Ricci per la fotografia e Giada Finucci per la scrittura, vuole portare lo sguardo delle nuove generazioni sulla città. Il suo scopo è quello di valorizzare luoghi di Siena attraverso la fotografia e il racconto.

Le numerose battaglie fra Siena e Firenze sono all’ordine del giorno nel programma scolastico di storia di qualunque scuola senese. Ma solo una viene particolarmente ricordata, solo una gli insegnanti si prendono il tempo di approfondire e spiegare: quella di Montaperti. La battaglia de “lo strazio e il grande scempio, che fece l’Arbia colorata in rosso” (Dante, Inf.  X, 85-88). Nel Castellare, vi è una traccia intima di questa battaglia: una lapide a ricordo di Giovanni e i lamenti di familiari immaginati che rimbombano ancora fra le mura e la notte fischiano nelle orecchie dei visitatori. Oltrepasso il tunnel di ingresso rosso mattone e dall’arco a volta mi affaccio sulla piazza. E’ la vedova Ugurgieri a prender parola, a volermi raccontare la sua storia: era una fra le donne che, il 4 settembre 1260, fra le grida della città in festa faceva i conti con la perdita.

“Le braccia forti di due giovani soldati riportarono il suo corpo a casa. Dalla finestra della nostra camera da letto vidi adagiare le sue membra in mezzo alla piazza, sulla stessa pietra serena che aveva accolto i suoi primi passi. I palazzi della corte si ripiegarono su di lui, fecero da scudo alla tragedia attesa ma mai creduta possibile. Sistemai i capelli lunghi in una crocchia, indossai il vestito che la serva mi aveva lasciato sul letto e mi preparai a scendere, ad accogliere nel petto il pugnale che una moglie si aspetta che arrivi davanti al corpo freddo e inerte del marito. Scesi le scale di casa come chi scende dal piano di una vita areata e felice per inabissarsi nel buio di una cantina inesplorata.

I servi nascondevano il corpo alla mia vista. Gli chiesi di andare. Che portassero via anche Anselmo, nostro figlio. Sola, mi riversai sul suo collo trafitto da una lancia. Posi il palmo della mano sotto la sua nuca, per fargli io da cuscino. Mi distesi poi accanto a lui: la corte il nostro ultimo letto matrimoniale. Il Castellare ovattava, senza impedire di udire, le urla di gioia dei soldati rientrati vivi dalla battaglia e il Te Deum intonato dal popolo intero in festa. Avevano vinto, dunque. Le braccia trepidanti dei familiari, modellate in pochi giorni a forma d’attesa e adesso finalmente soddisfatte, si preparavano ad andare in Duomo ad alzarsi in un grazie alla Vergine Maria.

Guardai in alto, alla direzione a cui i suoi occhi chiusi e tumefatti puntavano: un cielo terso faceva da cornice al nostro addio. Nei libri di storia nessuno si chiede quanto una vittoria costi cara e chi, seppur fra i vincitori, ne esca perdente. Uno stormo di rondini che da mesi stava appostato sulla nostra torre prese il volo: andavano a cercare il caldo altrove, in qualche paese dove il freddo non stesse per gelare i rami e i cuori. Per Siena si apriva una stagione d’oro: le anime ghibelline erano gonfie di vittoria e barlumi intravisti di potere. In Castellare era invece appena arrivato l’autunno”.

Duccio

Testo di Giada Finucci

Foto di Nicolò Ricci