Mostro di Firenze, ultimo atto: il grande colpo teatrale del settembre 1985, agli Scopeti

E’ una sera di fine estate. E’ uno di quei giorni in cui la campagna toscana inizia a colorarsi di mille sfumature che, passando dal giallo ocra, attraversano il marrone e l’arancio per poi mettere in risalto l’ancora verde scuro di una rinascita estiva ben presente e prepotente. La natura continua ad offrire i propri frutti ed i corbezzoli cominciano a calare sotto il peso delle loro bacche saporitissime in ottobre. Le lunghe distese di filari attendono l’imminente vendemmia e l’ulivo si carica dei suoi preziosissimi doni. L’aria di settembre torna pulita ed il cielo limpido viene attraversato dall’odoroso fumo di carne cotta alla brace; nei paesi si stendono tavoli e sedie per le tradizionali sagre e l’aria di festa avvolge lo splendore unico di queste terre. A noi piace immaginare che fosse un venerdì sera.

Il giorno successivo Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili avrebbero dovuto guidare per quasi 800km per raggiungere la loro casa, a Montbeliard, in Francia. I due ragazzi avrebbero dovuto fare una breve sosta, probabilmente a Bologna nella giornata di sabato, per poi essere in grado, alle otto del mattino del lunedì successivo, di accompagnare la figlia di Nadine a scuola. (Con comprensibile logica non immaginiamo di dover fare un viaggio così lungo avendo a disposizione meno di 24 ore di tempo e per di più prevedendo una sosta lungo il percorso). A noi piace immaginare che fosse un venerdì perché sappiamo che Nadine e Jean Michel non si erano lasciati sfuggire quelle pappardelle al sugo di lepre che solo una sagra toscana riesce a servirti così buone e genuine. (Tra tutte le testimonianze consideriamo più attendibile quella di A.C., in servizio presso la Festa dell’Unita di Cerbaia e unico ad aver riconosciuto la Mauriot, non tanto dalle foto apparse sui giornali, ma indicando perfettamente il suo aspetto fisico al momento del delitto e altresì non sottovalutiamo il dato emerso dall’autopsia: nello stomaco furono rinvenute porzioni di pasto non ancora digerito, con ogni probabilità composto da pasta, sugo di carne e pomodoro). E poi vi raccontiamo, come se fosse un venerdì, che trattenere tutti gli scontrini fiscali per poi farsi rimborsare l’IVA, una volta passata la frontiera, era un modo molto utilizzato dai viaggiatori stranieri e anche Nadine e Jean Michel, con cura e precisione, avevano conservato tutti i documenti fiscali proprio fino alle sera di quel venerdì 6 settembre quando la patologia si trasforma nuovamente in violenza, quando quella mano assassina arma ancora una volta la sua Beretta Calibro 22 con proiettili marca Winchester con lettera H sul fondello.

Non ci soffermeremo ulteriormente sulla data dell’ultimo duplice omicidio del mostro di Firenze. Sappiamo che la perizia ufficiale del dott. Maurri indica la domenica 8 settembre, sappiamo che, visti sia gli studi sulle larve presenti sui corpi dei ragazzi sia lo stato di decomposizione dei cadaveri, esperti come la Prof.ssa Lambiase, Il Dott. Introna, il Prof. Marello, il Prof. Osculati, il Prof. Vanin ed il Prof. Bolino indicano plausibile il giorno precedente, sabato 7 settembre senza escludere addirittura il venerdì 6.

Come abbiamo scritto in altre occasioni, stiamo ricostruendo una storia scartando a priori elementi, testimonianze, eventi, dicerie e procedimenti che secondo noi hanno nulla a che vedere con il mostro di Firenze. Abbiamo fatto un viaggio sulla base di quei documenti che fin dall’inizio, selezionati tra centinaia, ci hanno convinto maggiormente non tanto per i fini processuali, talvolta distanti dalla ricerca di una verità, ma per una narrazione che possa portare a mantenere viva questa vicenda senza dover distruggere il lavoro svolto dagli organi competenti. Una certezza comunque l’abbiamo: è lunedì 9 settembre 1985, Luca Santucci, cameriere di San Casciano parcheggia la propria auto in una piazzola in via degli Scopeti, a San Casciano Val di Pesa; a poca distanza una Golf bianca ed una tenda da campeggio. L’aria è infestata da mosche e l’odore è acre. Il Santucci si dirige verso la bassa macchia che caratterizza quella zona, tra i cespugli intravede prima i piedi e poi il corpo privo di vita di un uomo nudo, supino, con il busto evidentemente coperto di sangue. Vengono avvertiti i Carabinieri che alle 14:30 raggiungono il luogo del delitto e, oltre a quanto visto dal Santucci, trovano il corpo senza vita di una donna all’interno di quella tenda montata di fronte alla Golf bianca. I cadaveri vengono identificati in Nadine Mauriot di anni 36 e Jean-Michel Kraveichvilj di anni 25. La scena che si presenta agli inquirenti giunti sul posto è la seguente: sul lato sinistro della piazzola una golf bianca con targa francese. L’auto presenta tutti i finestrini e gli sportelli chiusi con sicura. All’interno, sul divanetto posteriore, un seggiolino per bambini e effetti personali delle due vittime. Di fianco al finestrino di sinistra, in angolo al montante un’evidente macchia di sangue, sul lunotto posteriore due impronte sulla polvere. Di fronte all’auto è montata una tenda da campeggio aperta sul lato frontale e chiusa su quello posteriore con uno squarcio di quasi mezzo metro provocato probabilmente con arma da taglio. Altro taglio di dimensioni inferiori si presenta sempre sul lato posteriore nel punto in cui la tenda crea l’angolo di sostegno. Nella parte anteriore, la zanzariera è stata forata da cinque proiettili in entrata. Esternamente, a circa un metro dall’ingresso anteriore, un’ampia macchia di sangue. All’interno della tenda effetti personali dei ragazzi ed il cadavere di Nadine Mauriot adagiato sul lato sinistro del corpo che si presenta molto gonfio, di colore marrone, in stato di decomposizione con vaste zone di epidermolisi. Sulla destra della piazzola, ad una decina di metri dalla tenda, viene rinvenuta un’ulteriore chiazza di sangue che introduce ad un gruppo di cespugli schiacciati dal corpo supino di un uomo con evidenti macchie di sangue cosparse su tutto il corpo. La testa è parzialmente nascosta da un coperchio facente parte di un’apparente accumulo di secchi di vernice abbandonati nella piazzola. Il corpo del ragazzo è in medio stato di decomposizione.

Jean Michel è stato ucciso da anemia acuta da emotorace ed emoperitoneo causata da 13 ferite da arma da taglio: due, da dietro, al dorso e probabilmente al collo, ma con ingresso anteriore, sei nella zona compresa tra il petto e l’inguine, quattro all’avambraccio e braccio sinistro, una sul vertice cranico. Sul corpo del ragazzo vengono, inoltre, riscontrate quattro ferite non mortali di arma da fuoco: al labbro, alla mano sinistra, alla mano ed al gomito destro.

Nadine ha invece trovato la morte in pochi minuti, quando si trovava ancora all’interno della tenda. Sul suo corpo tre colpi di arma da fuoco concentrati nella zona cranica e un colpo all’emitorace sinistro. Un profondo taglio, causato da arma bianca, viene riscontrato sul collo. Alla ragazza è stato asportato il seno sinistro e l’intera area del pube. Sul torace, intorno alla zona asportata, piccole ferite semicircolari e parallele, come se l’arma usata per l’escissione del seno avesse una seconda lama sul dorso.

I due ragazzi sono al buio all’interno della tenda, nessuna fonte di illuminazione viene ritrovata durante i primi sopralluoghi. Il mostro entra in azione mentre Nadine è sopra il corpo di Jean Michel. Spara all’interno della tenda dalla parte anteriore, quella che guarda verso la strada asfaltata, uccidendo Nadine e ferendo Jean Michel. Probabilmente l’assassino crede di aver annullato qualsiasi possibilità di reazione da parte dei ragazzi e quindi si sposta sulla parte posteriore della tenda effettuando lo squarcio che gli consentirebbe di agire sul corpo della donna in modo meno difficoltoso e soprattutto meno visibile perché coperto dalla stessa tenda. La luna questa volta è oltre il primo quarto, ma la scena è, a meno di fonti di illuminazione artificiali in uso all’assassino, alquanto buia. Jean Michel non è morto, è solamente terrorizzato e ferito. Con il killer nella zona posteriore della tenda, il ragazzo si precipita, liberandosi del corpo della fidanzata probabilmente esanime sopra di lui, verso l’apertura anteriore. Quando esce si trova di fronte il tronco dell’albero oltre il quale, dopo pochi metri si raggiunge la strada asfaltata di Via degli Scopeti. Jean Michel prende però un’altra direzione; si dirige verso l’auto per poi tentare una fuga all’interno di una macchia vegetativa difficile da scansare. Forse è a questo punto che il mostro esplode quei colpi che distruggono il gomito e l’omero del ragazzo creando quella sorta di mappa di chiazze di sangue sul terreno, forse è adesso che un uomo esperto di boschi e campagna sa come aggirare un impaurito atleta più giovane e robusto. Lo raggiunge, tiene il coltello nella mano destra e lo colpisce al dorso, allunga il braccio sinistro, lo porta a sé e gli trapassa il collo. A questo punto caduto a terra tra i cespugli e con il petto rivolto all’assassino, per il giovane, non c’è più possibilità di fuga. Il mostro torna alla tenda, estrae leggermente il corpo di Nadine e, prima al seno e poi al pube, pratica le escissioni, si procura i suoi feticci. Ricolloca il corpo nelle tenda e, così come si era già preoccupato di nascondere tra i cespugli e secchi di vernice il cadavere del Kraveichvili, adesso fa in modo che il corpo senza vita della Mauriot risulti come una semplice ombra che dorme all’interno di una canadese. Se per gli altri duplici omicidi avevamo ipotizzato una via di fuga sicura e geograficamente certa come può essere il greto di un fiume che non ti obbliga a parcheggiare il mezzo di trasporto nelle vicinanze, in questo caso crediamo, invece, che l’occultamento parziale dei cadaveri sia da imputare ad una reale necessità di tempo per la fuga, sia da ricercare in un obbligo di spostamento meno sicuro e sicuramente più a rischio.

Il duplice omicidio degli Scopeti rimane, comunque e per certi versi, un unicum, un grande colpo di teatro degno di un qualsiasi ultimo e preannunciato atto. Sembra strano asserire questo vista la stessa arma, l’utilizzo degli stessi proiettili, il rituale delle escissioni, la tipologia delle vittime, ma alcuni elementi, considerati per anni distintivi di questa azione criminale, vengono meno. Per la prima volta si nascondono i cadaveri, per la prima volta non ci si preoccupa della luce della luna, per la prima volta non è un auto ad essere teatro dell’aggressione. Non per la prima volta, ma sicuramente in questo caso in modo molto più accentuata, rimane impressa la sicurezza dell’assassino che dopo aver sparato e quindi aver fatto rumore, insegue e spara di nuovo, uccide a colpi di arma bianca, ancora rumore, torna alla tenda e pratica le escissioni con un senso di tale invulnerabilità che nessun uomo, a pochi metri da una strada provinciale, potrebbe avere, ma soprattutto è dato certo che la fatica, il sangue delle vittime, il sudore e la paura di un quasi fallimento non sarebbero potuti passare inosservati sul volto ed il corpo di un assassino in fuga da una zona che, oltre la strada asfaltata, non offre molte altre vie di allontanamento. Agli Scopeti, tra l’attesa, gli spari, le urla, le corse tra la vegetazione, le escissioni e la fuga il Mostro sosta non meno di venti minuti e lo fa apparentemente incurante del mondo che lo circonda. Lo fa e con altrettanta sicurezza si dilegua nella notte. Diciamo questo perché siamo nel 1985, siamo al quindicesimo e sedicesimo omicidio, siamo in una Firenze allertata, siamo al punto in cui le forze dell’ordine si fingono finte coppiette amoreggianti per le campagne fiorentine, siamo nell’epoca che porterà alla taglia da 500.000 milioni di lire sul mostro, siamo in un clima tale che immaginare contemporaneamente il duplice omicidio degli Scopeti ci lascia con tante, troppe perplessità.

Domande e dubbi a parte, all’indomani del duplice omicidio, ricollegandosi per trama ai precedenti articoli, gli inquirenti imboccano decisi la pista che ormai da tre anni stanno seguendo e che, dalla scarcerazione di Francesco Vinci, Giovanni Mele e Piero Mucciarini, ha un solo nome: Salvatore Vinci. Lo stesso lunedì 9 il Vinci viene sottoposto all’esame del guanto di paraffina da parte del Centro Carabinieri Investigazioni Scientifiche. Dal rapporto giudiziario a cura del Col. Nunziato Torrisi: ”… Le mani del VINCI, così come descrive il sottufficiale nella sua relazione di servizi, si presentano arrossate nella zona dorsale e nelle dita, con una elevata sensibilità e ad ogni applicazione l’interessato si lamenta dell’eccessivo calore. Questo comportamento è sembrato strano al sottufficiale, in quanto prima di applicare la paraffina egli prova la temperatura nella parte interna del suo polso. Tuttavia, lasciata raffreddare la paraffina più del dovuto, fino a farla quasi rapprendere e lamentandosi ancora il VINCI, il M/llo GASPERINI gli chiede con che cosa si fosse lavato le mani, per ridurle con quell’arrossamento e stato di sensibilità, ed il medesimo, senza rispondere o dare giustificazioni di alcun tipo, da quel momento smette di lamentarsi. L’esame effettuato al Centro Carabinieri Investigazioni Scientifiche ha consentito di rilevare solo apprezzabili quantità di antimonio nelle soluzioni relative ai tamponi dorso e palmo della mano destra, e siccome non è stata rinvenuta traccia di bario, l’altro elemento indispensabile per la determinazione dei residui carboniosi della polvere da sparo, l’esame stesso ha dato esito negativo, lasciando notevoli dubbi e perplessità…”

Contestualmente all’esame, Salvatore Vinci, che da mesi ha già il telefono domiciliare sotto controllo ed una pattuglia che staziona ogni sabato e domenica dalle ore 20 alle ore 24 sotto casa, viene interrogato sui suoi ultimi spostamenti. L’uomo riferirà di non essersi mosso da casa durante la giornata di venerdì 6 settembre, giorno in cui su di lui non è predisposto il controllo con pattuglia, di essersi recato al bar di Via Corridoni nella mattina di Sabato e di essere rientrato a casa per poi uscire nuovamente alle ore 16 per seguire il suo corso di alpinismo presso le Cave di Maiano. Rientrato alle ore 19:30 sarebbe uscito nuovamente alle ore 22 per un intervento di lavoro rincasando alle 23. In merito alla domenica 8 settembre Salvatore offre una più dettagliata analisi della giornata dicendo di essere rimasto in casa al mattino ad eccezione di una breve colazione al vicino bar. La sera sarebbe uscito alle 21:30 per comprare le sigarette a più di 5 km da casa in un bar all’incrocio tra via Baracca e Via Pistoiese e che, essendosi trovato casualmente in quella zona, avrebbe fatto una visita al suo grande amico di sempre, Saverio Biancalani, residente a poche decine di metri dal bar e, da casa del Biancalani, avrebbe effettuato una telefonata al figlio Roberto. Alle 22:30 sarebbe rientrato nella propria abitazione.

I coniugi Biancalani confermano la presenza del Vinci nella loro abitazione tra le 21:30 e le 22:30. La compagna Antonietta d’Onofrio conferma quanto detto da Salvatore relativamente alle giornate del 6 e del 7 settembre aggiungendo però di non essere stata presente in casa nella giornata di domenica 8 e di aver fatto rientro alle 22:15 trovando nell’abitazione solamente il figlio Roberto. Alle 22:45 avrebbe ricevuto una telefonata dal compagno che non le precisava da dove stesse chiamando. Il figlio Roberto aggiunge al racconto del padre e di Antonietta solamente il ricordo dell’uscita di casa di Salvatore intorno alle ore 20 della domenica. A questi riscontri si aggiungono, evidentemente, i verbali degli agenti che controllavano le telefonate sul numero intestato al Vinci e di coloro che prestavano opera di controllo sui suoi spostamenti. Come abbiamo detto venerdì 6 settembre non è previsto alcun controllo, per i giorni successivi, dal rapporto giudiziario a cura del Col. Nunziato Torrisi,: “…sabato 7.9.1985, il VINCI Salvatore, alla guida del suo furgone Fiat 850 è visto far rientro alle ore 20,35 (non si sa quando è uscito); esce poi alle ore 21,05, con lo stesso automezzo, recandosi in via delle Casine per un intervento, facendo rientro a casa alle ore 23,00, senza andare fuori sino alle ore 24,00; −domenica 8.9.1985, allorché alle ore 20,00 i militari intraprendono il servizio, il VINCI Salvatore è già uscito, in quanto il furgoncino Fiat 850 non è parcato nei pressi della sua abitazione; lo stesso, verso le ore 23,00, viene visto far rientro, senza più uscire, sino alle ore 24,00, ora in cui il servizio è stato ultimato…”.

Interessanti sono anche le telefonate intercettate soprattutto in relazione alla chiamata che Salvatore avrebbe fatto intorno alle ore 22:45 di domenica 8 settembre all’indirizzo del figlio Roberto e la compagna Antonietta; sempre dal rapporto giudiziario a cura del Col. Nunziato Torrisi: …”alle ore 22,42 dell’8.9.1985, giunge una chiamata da parte di VINCI Salvatore, il quale chiede novità circa eventuali richieste di intervento. La D’ONOFRIO Antonietta, nel dargli la risposta negativa, gli chiede più di una volta dove si trovi ed il VINCI risponde che non vuole dirglielo. La telefonata è disturbata da rumori di sottofondo, come se egli stesse chiamando da un bar o da un posto molto affollato. Il VINCI Salvatore, evidentemente non soddisfatto della risposta della donna, si fa passare anche Roberto, e chiede anche a lui eventuali novità, ricevendo la medesima risposta…”

A notte fonda, tra le 2:24 e le 2:31 il telefono di casa Vinci effettua continue e ripetute chiamate ad una azienda di forniture pasticceria e bar situata di fronte all’abitazione, in Via Cironi, 9, non ricevendo logicamente alcuna risposta, ma lasciando impressa nei nastri intercettatori la voce di Salvatore a dimostrazione della sua presenza in casa: non dimentichiamo che il Vinci è perfettamente a conoscenza dei controlli che sta subendo.

La posizione di Salvatore Vinci non migliora agli occhi degli investigatori che notano come siano assenti alibi certi per il tardo pomeriggio e la prima parte della serata e le incongruenze sugli orari forniti dall’indagato e dai suoi familiari, ma se con gli anni la tesi ufficiale del duplice omicidio avvenuto di domenica sembra sempre più difficilmente sostenibile, per quanto fosse logicamente importante nel 1985, perché anche a noi, che raccontiamo questa vicenda cercando di ricostruire senza demolire, incuriosisce questa strana voglia di Salvatore di giustificare ogni suo passo solo relativamente all’otto settembre lasciando in secondo piano il giorno sei, quando abbiamo immaginato potrebbe essere avvenuto il delitto?
(continua)

Andrea Ceccherini