Le storie del manicomio di Siena: Mario Puccini o “l’unghia del leone”

Adottando una visione dal taglio sociologico un po’ cinico, si può sostenere che i manicomi siano stati utilizzati come il magazzino degli scarti, come il naturale deposito di merce (umana) difettosa o difettata. Cioè per merce nata male fin dall’inizio o che invece si è rivelata fragile e poco adatta nel corso del tempo, superata dagli sviluppi sociali. Mi rendo conto che è questa una concezione un po’ brutale e poco rispettosa del valore dell’uomo, di ogni uomo di qualunque condizione esso sia, ma, diciamolo, è un modo realistico di vedere la cosa. È quindi evidente che nella popolazione dei pazienti ci si debba aspettare una assoluta maggioranza di persone fragili, poco adatte ai tempi, in qualche modo “inutili”.


Ma ogni regola ha le sue eccezioni ed anche questa ha la sua nella possibilità di trovare all’interno dei manicomi persone a volte dotate di grandi talenti. Che potevano essere di vario tipo ma che spesso percorrevano la via dell’arte. D’altro canto è risaputo che il confine esistente tra la follia ed il genio artistico è spesso labile e confuso, come se i due territori in realtà tendessero spesso a confondersi e sovrapporsi. Si potrebbe citare a sostegno di questa tesi come questo aspetto sia stato sottolineato dalla bella mostra “Arte, Genio e Follia” che, sotto l’egida di Vittorio Sgarbi, si è tenuta qualche anno fa a Siena. Esiste un problema interessante che è corollario a questa notazione e che ha riguardato spesso coloro che si sono trovati ad avere in cura questa merce speciale, per tornare alla metafora iniziale, fragile e preziosa insieme. La domanda che viene sempre posta è la seguente: la cura psichiatrica finisce per “spengere” quel talento, normalizzando la persona in questione o invece quelle abilità rimangono indipendenti dalle terapie?


Credo di poter dire che anche su questo, come per molti argomenti psichiatrici, non ci sono risposte univoche. Citerò solo qualche esempio tra i molti che si potrebbero fare. In campo letterario, per esempio, abbiamo Dino Campana (1885 – 1932) che una volta ricoverato nel manicomio di Castelpulci a Scandicci si spenge lentamente, diventando l’ombra di se stesso. Dall’altro lato sappiamo invece che le migliori liriche scritte dal tedesco Hölderlin (1770 – 1843) appaiono nel periodo del suo maggior delirio. Sono le poesie della Torre, così chiamate perché scritte durante il periodo della sua auto esclusione dal consorzio civile, quasi una detenzione volontaria in quell’edificio di Tubinga. In campo musicale possiamo citare Schumann (1810 – 1856) che inoltrandosi in una psicosi delirante perde il suo estro compositivo, mentre invece, tra i pittori, Van Gogh riesce a essere produttivo anche nei periodi più bui. Insomma una questione controversa che forse rimarrà tale almeno nella sua formulazione generalizzante, mentre invece solo l’analisi fatta caso per caso può permettere, a mio parere, di capire meglio le relazioni tra genio e terapia.
Tornando alla visione iniziale del manicomio come discarica di un’umanità difettosa anche il San Niccolò ha avuto tra le sue fila varie eccezioni. Tra i pazienti che vi hanno soggiornato, infatti, ci sono almeno due pittori di una certa fama e che pur non essendo forse noti al grande pubblico, lo sono invece agli esperti. Parlo di Mario Puccini e di Niccolò Cannicci di cui tratteggerò le storie, per certi aspetti molto diverse tra loro.
Comincio da quello più conosciuto ma anche più sfortunato, che è senz’altro Mario Puccini (1869 – 1920) di Livorno che ha avuto una degenza di oltre quattro anni presso quel nosocomio.
La sua vicenda artistica è nota e la si può facilmente reperire sui vari motori di ricerca. Viene definito come un essere psicologicamente fragile, socialmente umile, tanto che nella sua breve vita ha fatto di tutto, dal cameriere al venditore di aghi e cotoni. Ma dotato di un talento pittorico notevole che lo colloca nel novero dei post macchiaioli vicino a Fattori, suo insegnante all’Accademia di Firenze, a Ghiglia, De Grada e molti altri. Ha operato quasi solamente in Toscana, nella sua Livorno di cui ha dipinto apprezzatissime marine, ma anche nella Maremma dove, rincorrendo i paesaggi del suo maestro Fattori, spese i suoi ultimi anni. Nel 1912 durante un breve soggiorno in Francia dal fratello che là faceva l’attore ebbe modo di conoscere da vicino l’impressionismo e in qualche modo la sua pittura ne fu influenzata. Secondo alcuni critici è una specie di trait d’union, tra il macchiaiolismo e appunto l’impressionismo.


Molto noti sono i suoi paesaggi del porto di Livorno che spesso ritrae con colori accesi che hanno una forte relazione con il suo stato d’animo. Qualche anno fa il Comune di Seravezza gli ha dedicato una mostra antologica che aveva come titolo: Mario Puccini, il Van Gogh Italiano. Diversi infatti sono i punti di contatto tra le due vicende artistiche e umane, anche se situati su livelli diversi di valore e qualità. Lo dico per dimostrare come il suo ricordo sia tutt’ora vivo ormai a quasi un secolo dalla sua morte. E come le sue opere siano ancora in commercio nei cataloghi delle case d’arte più apprezzate, raggiungendo quotazioni importanti che vanno anche oltre i 50mila euro.
Meno conosciuta è la sua vicenda sanitaria che ho cercato di capire meglio attraverso la lettura della cartella clinica. Il Puccini viene ricoverato al San Niccolò il 4 febbraio del 1894 all’età di venticinque anni e dimesso il 5 maggio del 1898 dopo aver quindi trascorso oltre quattro anni tra quelle mura. Il grosso della sua carriera pittorica avviene da lì in poi e grazie al sostegno di alcuni maestri si conquista un posto all’interno di quella cerchia artistica livornese che tanto caratterizzò la citta labronica in quel periodo. A dimostrazione però che una certa sfortuna lo ha sempre perseguitato, quando il successo cominciava a essere più continuo, si ammala di tubercolosi e muore a cinquantun anni ancora giovane senza aver dispiegato probabilmente tutte le sue potenzialità.
Cosa caratterizza la sua vicenda clinica? Si possono notare alcune cose interessanti.
La prima è che il Puccini viene trasferito dall’Ospedale di Livorno dove il suo ricovero dovette essere abbastanza tempestoso. Il paziente probabilmente non accettava quella degenza e giunge a tentare la fuga dall’ospedale in maniera rocambolesca. Una volta riacciuffato viene trasferito al manicomio di Siena. Da notare che nel carteggio contenuto in cartella esiste una lettera del Puccini rivolta ai medici dell’ospedale di Livorno in cui chiede scusa del comportamento avuto durante quella degenza.
La seconda riguarda il controverso rapporto con la famiglia e con il padre, fornaio, in particolare. Da lui il Puccini ebbe sempre pieno sostegno, tanto da essere economicamente sostenuto durante il ricovero. Infatti pur non vivendo in condizioni agiate, il padre lo fece trasferire al reparto dei rettanti dove, secondo il suo parere, il figlio poteva trovare un ambiente più consono ai suoi studi ed alla sua intelligenza. Poi dopo quegli anni trascorsi senza apparenti risultati si prese la responsabilità di riportare a casa il figlio. Seguirono anni in cui Mario fece lavori umili e rimase nell’orbita familiare. Secondo i critici solo quando si liberò dell’influenza paterna cominciò davvero la sua carriera pittorica, si trasferì lontano da lui e cominciò anche a viaggiare un po’.
Spesso si legge che all’origine del malessere che lo portò al ricovero ci sia stata una delusione d’amore ma in cartella non vi è cenno di quella frustrazione. Si legge invece, all’inizio, di sue vaghe idee di persecuzione al riguardo dei familiari. Così viene riportato in cartella: “diceva di essere affiliato ad una società politica e che il padre voleva darlo in mano agli anarchici, dai quali si dichiarava perseguitato”. Queste idee però svaniscono presto e non se ne fa più menzione mentre nelle note cliniche si descrive sempre di più un atteggiamento abulico, depresso e demotivato verso la vita. Il medico lo descrive spesso steso e abbandonato su una panca senza alcuna partecipazione alla vita sociale del San Niccolò. Le sue conoscenze pittoriche erano ben note, tanto che viene spesso avviato al laboratorio di pittura ma lui partecipa solo per onor di firma e spesso, se può, se ne allontana. Qualche miglioramento avviene nel momento in cui viene trasferito alle Ville dei rettanti, ma non di grande rilievo tanto che anche all’atto della dimissione il medico così scrive: “Il risveglio intellettuale non ha fatto ulteriori progressi ed il malato, sia nei discorsi sia negli atti si dimostra molto puerile, debole di riflessione e di sentimenti affettivi. Richiesto dal padre viene affidato alla custodia domestica”.
Viene addirittura dimesso con la diagnosi di “demenza primitiva”, una dizione molto generica che pare sottolineare più l’atteggiamento abulico e disinteressato che non gli aspetti depressivi che pure erano evidenti. L’impressione che io ne ricavo è che il Puccini fosse dotato di un grande talento creativo probabilmente “montato”, se così posso dire, su uno chassis psicologico e affettivo più debole, che ebbe bisogno di molti anni per consolidarsi e permettere alla sua creatività di esprimersi appieno.
Evidentemente poi quando il Puccini troverà la forza di riappropriarsi del suo talento e della sua piena autonomia, quella diagnosi viene contraddetta dal successo che muta le sue condizioni di vita. Anche se non riuscì mai a sollevarsi completamente ed in modo stabile dall’indigenza iniziale, tanto che spesso, si racconta, che la colazione o a volte la cena del Puccini, al rinomato bar Bardi in quegli anni ritrovo di artisti, dipendeva dalla benevolenza di qualche amico cameriere che ogni tanto gli passava la brioche sottobanco o il cornetto avanzato.


Vorrei concludere la sua storia con un gustoso aneddoto che ho colto da un carteggio presente in cartella e che riguarda anni molto posteriori al suo ricovero.
Si intuisce che il prof. D’Ormea (direttore del San Niccolò per un lunghissimo periodo, dal 1909 al 1952) si ritrova nello studio un disegno del pittore, ma non sapendo decidere se valesse la pena metterlo in cornice e esporlo, fa una fotografia del disegno e lo manda a far valutare dal responsabile della Regia Soprintendenza all’Arte Medioevale e Moderna per la Toscana IIA, che in quegli anni era il conosciuto critico Peleo Bacci e che aveva la sua sede a Siena. In cartella è conservata appunto la sua risposta che così in un tratto della lettera dice: “pare eseguito un po’ accademicamente ed in condizioni psichiche anormali, rivela tuttavia l’unghia del leone. Merita di essere messo in cornice ed inserito nel suo studio”.
Siamo nel 1931 e con ogni probabilità il successo di Puccini, sia pure postumo, è nel pieno del suo fulgore, sollevando così l’interesse (e forse un pizzico di senso di colpa) degli psichiatri (che certo non erano gli stessi) che lo avevano visto passare da lì e che forse lo avevano valutato in modo avventato.
Un successo ed un interesse che però questo simpatico giovanotto livornese, già morto da oltre dieci anni, non si poté mai godere.

Andrea Friscelli