Innamorati, corridori nudi e vescovi martirizzati. La festa di San Valentino

E’ arrivato San Valentino. Forza, tutti a tubare; in fila dal fioraio; prenotate il ristorante; scegliete un menù romantico…

Gente, l’avete comprata la scatola di Baci Perugina? E i cuoricini assortiti? E i gadget mielosi con fanciullini e fanciulline sgnauleggianti d’amore? Sì, dai, non vergognatevi: non siete usciti illesi dall’impatto con la festa più sdolcinata (secondo me, la più insopportabile, ma è un giudizio personalissimo e non pretendo che lo si condivida) dell’anno. E’ arrivato San Valentino. Forza, tutti a tubare; in fila dal fioraio; prenotate il ristorante; scegliete un menù romantico (no: non ho detto afrodisiaco! Ho detto romantico). E dato che ci siete, chiedetevi anche perché il povero San Valentino deve vedere associata la sua onesta carriera di vescovo e martire a queste melensaggini. A proposito: San Valentino è, come è meno noto, anche patrono degli epilettici. Il nesso fra le due specializzazioni, lo confesso, mi sfugge (se ce n’è uno che non sia goliardicamente connotabile).
Lui, po’er nano, era una personcina a modino. Era diventato vescovo di Terni, dove era nato intorno al 176, poco più che ventenne e venne martirizzato a Roma il 14 febbraio 273. Cioè sarebbe campato poco meno di cent’anni e se non lo avessero decapitato per ordine di quel senzadio sacripante bojone bruttogiuda dell’imperatore Aureliano (a proposito: Aureliano fu uno degli imperatori più competenti e capaci dell’ultima età romana; così, tanto per non confondere la storia con l’agiografia) chissà quanto sarebbe campato ancora. Valentino, per la verità, ha una “storia” controversa. Qualcuno sostiene che ci sono stati due Valentino martirizzati: uno, sacerdote, messo a morte nel 268 e, appunto, il nostro. Per altri studiosi si tratterebbe, invece, della stessa persona con due narrazioni agiografiche differenti.
Il legame con gli innamorati è forse da ricercare in un episodio della sua legenda: anzi, forse in due. Una tradizione popolare, infatti, racconta che Valentino era teneramente (e castamente, si suppone: pur sempre di un sacerdote si tratta) legato ad una giovinetta alla quale aveva ridato miracolosamente la vista, e, al momento di essere portato al martirio, l’avrebbe salutata con una lettera che si concludeva con “dal tuo Valentino” (aveva almeno 97 anni: arzillo il nostro santino eh?). Un’altra – ben più degna di attenzione – è invece riferita al fatto che Valentino avrebbe celebrato il matrimonio fra una giovane cristiana, Serapia, e un romano pagano, Sabino. L’unione era contrastata dalla famiglia di lei che non voleva intorno quell’idolatra di genero, ma Valentino fece il miracolo di convertirlo e poté, così, santamente unire i due giovani. Peccato che la ragazza fosse gravemente ammalata e che, appena stretto il sacro vincolo, morisse, immediatamente seguita, per crepacuore, dal neo-marito. Insomma, come patrono degli innamorati ci sarebbe da discutere, che vi devo dire?


C’è anche un’altra versione che spiega il legame Valentino- piccioncini e se la sono inventata in America (pensate un po’). La riporta Alfredo Cattabiani (Santi d’Italia): un giorno il vescovo vede due giovani che stanno litigando e allora si avvicina a loro con una rosa invitandoli a tenerla con le loro manine unite. Miracolo dell’amore: si acqueta la baruffa (ma non si dice che “l’amor senza baruffa fa la muffa”? mah…) e i giovani passano dal turbamento al tubamento. Anzi, una variante di questa gran puttanata vuole che il santo abbia mandato intorno ai due giovani in pieno scazzo proprio uno stuolo di coppie di piccioni che si scambiavano effusioni, tanto che i litigiosi innamorati, ammaestrati dall’esempio, avevano subito ricominciato a scambiarsi coccole (no, non quelle dure, di abete, tirate sulla testa: coccole amorose).
Ma quando si comincia a celebrare la festa di San Valentino e che cosa c’entra – nella realtà – la promozione di una storia del santo ad elemento caratterizzante di un appuntamento folklorico sentito e condiviso da tutti?
Per capirlo, bisogna retrocedere alla cultura precristiana, e questa ci fa incontrare, a febbraio, a Roma, la festa dei Lupercalia in onore del dio Faunus Lupercus, protettore del bestiame dai lupi. I Lupercali avevano il loro culmine il 15 febbraio, quando due schiere di giovani (ciascuna espressione di una gens aristocratica: la festa è politica. Sempre. Non dimenticatelo mai), nudi come mamma li aveva fatti (ma non gli faceva freddo? Pur sempre in inverno siamo… boh…), davano vita ad una sfrenata cerimonia fatta di balli, corse, fiaccole e, soprattutto, caratterizzata dall’elemento fondamentale dell’aggressione simbolica alle donne, che venivano inseguite e colpite con strisce di pelle di caprone. L’allusione alla dimensione sessuale dell’atto e all’aspetto di rito di fertilità è palese e proprio il richiamo a quest’ultimo elemento (la fertilità) è duplice, perché nell’immagine della donna simbolicamente “da fecondare” si specchia una analoga invocazione alla fertilità della terra che sta avviandosi al risveglio di primavera.
La festa aveva un successo enorme; Giulio Cesare nel 44 a.C. si era inventato anche una terza, personale, schiera, quella dei Luperci Julii e aveva pensato ad una magata politica da paura. Marco Antonio, infatti, nel colmo della cerimonia, si era staccato dalla schiera danzante e, gnudo come un bruco con tanto di pisellino ballonzolante, aveva presentato a Cesare una corona di alloro per incoronarlo. La gente si era incazzata a tal punto, per l’evidente forzatura, che Cesare aveva dovuto dichiarare che il tutto si era svolto “a sua insaputa” (anche lui! Il prototipo?) facendo portare la corona a Giove Capitolino.
I Lupercali furono forse l’ultima festa pagana depotenziata dal Cristianesimo: papa Gelasio I (pontefice alla fine del V secolo) testimonia che in quell’epoca la festa era ancora sentita. Ma per domesticarla occorreva soprammetterle un elemento psicologicamente e folkloricamente equivalente, e si pensò di promuovere il culto del santo degli innamorati, che andasse a prendere il posto (con un giorno solo di scarto: il 14 anziché il 15) di quell’orgiastica sarabanda di giovani nudi che saltavano addosso alle donne. Così, il vescovo Valentino si trovò al centro di uno status sacrale in cui l’amore era ancora elemento centrale, ma depurato dell’eros selvaggio che connotava la festa pagana. Del resto, a metà febbraio la stagione sta cominciando a volgere verso la primavera e gli uccelli cominciano il corteggiamento e l’accoppiamento: è anche questa la ragione del favore della festa del santo e il riferimento all’immagine dei pennuti tubanti? E’ possibile.
La tradizione sembra svilupparsi però soprattutto nel pieno Medioevo. Di certo, almeno in base a quel che se ne sa, è il XV secolo il secolo-chiave per l’affermazione del binomio San Valentino- innamorati: per esempio, a Parigi il 14 febbraio del 1400 viene fondato l’ “Alto tribunale dell’amore”, una sorta di istituzione in difesa dell’amor cortese, e sempre di ambito francese è la prima “valentina” (la letterina d’amore: quella che Charlie Brown aspetta inutilmente San Valentino dopo San Valentino) della quale si abbia memoria, scritta da Carlo d’Orleans prigioniero nella Torre di Londra, dove era stato portato all’indomani della battaglia di Azincourt (25 ottobre 1415: Guerra dei Cento Anni) disastrosamente perduta dal suo esercito (quella del giorno di San Crispino e Crispiano; di we few, we happy few, we band of brothers… Shakespeare, “Enrico V”, brividi!).
In Italia, una “valentinata” celebre è quella della giostra d’amore tenutasi a Firenze il 14 febbraio 1464 (era anche l’ultimo giorno di Carnevale, quindi la performance aveva una doppia valenza) ad opera di Bartolomeo Benci, 24 anni, un sacco di quattrini e un’arrembante carriera politica davanti, in onore di Marietta Strozzi, 16 anni, una bellezza – dicono – da mozzare il respiro. In questa notte, peraltro piena di neve, si svolge una “armeggeria” (come si chiamavano questi giochi in armi), preceduta da un corteo fantasmagorico al lume delle torce. I giovani sfilano sotto le finestre della giovane; arriva un cuore tutto illuminato da fiaccole (una roba kitsch di rara tamarritudine) e infine, per ore (sai contenti i vicini di casa), i cavalieri si scagliano contro il muro della casa della giovin bonazza infrangendo lance sotto gli occhi compiaciuti della pulzella che dev’essersi sentita un’Elena rediviva.

In realtà, in tutto questo bailamme l’amore non c’entra un’acca: è un rito di riconciliazione politica fra esponenti di due parti avverse, come prova anche il fatto che Marietta non sposerà assolutamente Bartolomeo e non perché lo smusasse, ma proprio perché non era previsto che alla giostra di quella fredda notte di Carnevale seguissero fidanzamento, nozze, invitati misti e dodici antipasti (riconoscere la citazione in due secondi netti). Tuttavia, il San Valentino di quell’anno entrerà di diritto nelle cronache cittadine come una performance di rara, emozionante efficacia.
E ora che fate? Ve la cavate con un cuoricino, un cioccolatino zuccheroso e un gadget mieloso? Volete essere da meno di un Bartolomeo Benci? Va bene che di armeggerie d’amore non se ne inscenano più, ma datevi da fare in altro modo: mica vorrete che il vostro San Valentino venga liquidato come una patetica, imbarazzante poverata, vero?

Duccio Balestracci