Il lavoro, gli skills e le professioni del futuro

Mi sono imbattuto, qualche giorno fa, in un interessante articolo del Sole24Ore dove veniva trattato il tema del lavoro del futuro, dove cioè si sarebbero concentrate le migliori opportunità per chi è in cerca di un primo lavoro o di uno sbocco professionale.

Al di là della divisione (manichea) fra profili alti, medi e bassi la cosa pregnante è che a fronte di 778mila possibili manager e professionisti (high skills) – futuri entranti nel mondo del business – sono presenti opportunità per soltanto 809mila profili medi (medium skills) e 988mila basse professionalità (low skills).

Un po’ come dire, per grazia, che sarebbero stati finalmente riconosciuti i sacrifici dei genitori (che hanno mandato a studiare i figli), le aspettative dei giovani (che si sono piegati sui libri) ed i desiderata del sociale che ambisce sempre di più a qualificare le professioni, gli studi e il livello lavorativo/retributivo.

Tutto giusto e perfetto, quindi: con un però.

Un però tanto grande quanto inquietante, un dubbio tragicamente incombente e pericoloso.

La questione, cioè, di fare un esercito dove ci sono tre generali, cinque comandanti e due soldati e di considerare (implicitamente) come secondario lo sviluppo della manifattura e dell’industria (avente alla base la forza lavoro).

Se si fa una proporzione di 1 a 1 (quasi) fra futuri operai e futuri dirigenti si dice indirettamente che non nasceranno fabbriche, prodotti e beni strumentali: uno sviluppo di professioni, cioè, più che di “cose”.

Puntare solo sul terziario sarebbe un errore clamoroso e deleterio in quanto, come logica vuole, non potremmo vivere di soli servizi e solo commercio delegando ad altri Stati lo sviluppo delle fabbriche e delle aziende: un po’ come dire noi (Italia) ci mettiamo il brand ed il marchio e voi (Cina e paesi emergenti) il lavoro.

Ma con il solo brand, uno Stato di sessanta milioni di persone non ci mangia.

Viva il Tricolore!

Luigi Borri