Da Siena alla Tanzania: con Rafiki, insieme per il popolo africano

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Continua il viaggio nel terzo settore della città. Abbiamo intervistato Roberto Marzocchi, presidente dell’associazione Rafiki, impegnata in Tanzania per aiutare le popolazioni africane costrette a vivere tra miseria e malattie

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“L’amicizia per noi è un valore importante e RAFIKI vuol dire AMICO. In Tanzania abbiamo trovato una seconda casa e tanto bisogno di solidarietà”. Si è innamorato subito di quella terra Roberto Marzocchi, e lascia lì un pezzo di cuore ogni volta che deve ripartire per tornare in Italia. “L’Africa – continua – ti avvolge, riesce a sopraffarti l’anima, per tutto quello che vedi, che provi e che senti.  Con la nostra associazione abbiamo trovato un modo, tra i tanti, di non essere solo spettatori delle sofferenze altrui”. Roberto, insieme ai suoi volontari, condivide le esperienze di vita con una splendida comunità che non ha niente in comune con la nostra. “Ma proprio per questo mi arricchisco ogni volta che passo il mio tempo con loro, che scopro usanze e tradizioni, che mi siedo ad ascoltare le richieste disperate di chi ama una terra che poco può offrire, segnata da malattie e miseria”. Nella realtà delle grandi contraddizioni, ma anche delle danze, dei tamburi e dei canti, il presidente Roberto ci racconta il lungo percorso dell’associazione Rafiki, gli obiettivi e i grandi risultati ottenuti che hanno permesso alla comunità di Haubi una vita migliore.

“Il contatto con un mondo così diverso  – continua Roberto – aiuta a vedere tutto da un punto di vista nuovo, ridimensionando i problemi e apprezzando ciò che si ha”.

Com’è nata la vostra associazione?

Siamo nati come un piccolo gruppo, inizialmente, grazie a due ragazzi africani che studiavano a Siena, Zoe e Nancy (fratello e sorella).  I due vengono da Haubi, una città della regione di Kondoa, in Tanzania. Il loro sogno era quello di migliorare la realtà del villaggio da cui provengono. Nel 2001 hanno iniziato a diffondere l’idea di sviluppare un gruppo, per realizzare il loro desiderio. Parlavano con gli amici e li invitavano a visitare la loro terra, per conoscere la zona e aiutarli nel loro primo progetto. Si trattava di raccogliere fondi, tramite la parrocchia, per comprare un microscopio per le analisi e strumenti di laboratorio. C’è stato un fitto passa parola e pian piano sono riusciti a racimolare una cifra sufficiente per comprare il microscopio. Studiavano all’università e si davano molto da fare per spargere la voce tra gli universitari e nella cappella che frequentavano. È così che è nato poi il nostro gruppo, Rafiki. Mi sono innamorato subito della loro storia e del loro entusiasmo. Il primo anno della nascita di Rafiki, siamo andati in Tanzania in tre. Poi, gli anni successivi, abbiamo diffuso idee e progetti, cercando di coinvolgere più volontari possibile. Il secondo anno sono partite circa una ventina di persone. Intanto cresceva il numero di richieste per entrare a far parte del gruppo  e nel 2005 abbiamo deciso di costituire un’associazione che è diventata onlus. Dopo il primo progetto, inaugurato da Nancy e Zoe, ne abbiamo approfittato per raccogliere le richieste di altre comunità e delle scuole della regione di Kondoa. Infatti, un anno per volta andavamo giù con i ragazzi del gruppo e ci impegnavamo per organizzare campi lavoro e per ristrutturare le scuole della zona.

Cosa ha fatto Rafiki per la Tanzania? Quali progetti avete portato avanti?

Nel paese di Haubi ci sono circa 30.000 abitanti e a quel tempo non era ben fornito, sotto ogni punto di vista: le strutture erano fatiscenti, l’assistenza sanitaria era ridotta al minimo. Abbiamo accolto, viaggio dopo viaggio, le richieste della comunità e ci siamo impegnati a raccogliere fondi in Italia con cene, mercatini e manifestazioni.  Le richieste erano tante, abbiamo dovuto dare la priorità a quelle che ci sembravano più urgenti. Ad oggi, con la nostra associazione, siamo riusciti a ristrutturare tre scuole, dove sono iscritti più di 3600 bambini.  Abbiamo costruito banchi, provveduto al materiale scolastico, come quaderni, penne e matite, tutto acquistato sul posto. Così facendo abbiamo fatto girare un po’ l’economia locale (e poi sarebbe stato troppo dispendioso far arrivare così tante cose dall’Italia). Quest’anno siamo riusciti a costruire più di 15 pozzi, semplici, non molto profondi, ma per loro sufficienti. Abbiamo collaborato con i cittadini, senza voler sconvolgere la loro vita o imporre il nostro operare, cercando di “risolvere problemi africani con metodi africani”, un motto ormai della nostra associazione. Ci rendiamo disponibili ai muratori locali, anche se non abbiamo le competenze specifiche. In pratica diventiamo manovali e sono loro a dirigere i lavori.

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I bambini sono i primi a risentire delle carenze mediche e strutturali in questi paesi. Quali interventi avete adottato e con che risultati?

Abbiamo aiutato bambini malati di labbro leporino.  Qui in Italia sarebbe un’operazione semplicissima e non troppo costosa. In quella zona, però, loro devono affrontare un viaggio di 700 km per andare all’ospedale più vicino. Una volta arrivati, immaginate la lunga attesa all’ospedale.  Uno strazio. Noi abbiamo cercato di risolvere il problema portandoli agli ospedali privati, anche con dottori italiani. Pagando una normale operazione abbiamo guarito un bel numero di bambini. Lo stesso abbiamo fatto con i bambini affetti da malformazioni alle gambe. Per tanti ragazzi siamo riusciti anche ad ottenere borse di studio per permettergli di continuare la scuola, pagandogli le spese finché potevamo.

Qual è il bilancio del 2016?

Stiamo portando avanti un progetto da qualche anno: la costruzione di una casa famiglia. Quando noi andiamo nel villaggio non abbiamo una sede, ci appoggiamo a amici e conoscenti, persone e parenti, siamo ben conosciuti, ma sarebbe comodo un punto di riferimento. Abbiamo acquistato un terreno e iniziato a costruire una casa famiglia. Di solito andiamo tutti gli anni, da 1 a 3 mesi (luglio, agosto, settembre) e l’associazione (da statuto) non paga né biglietto né vitto e alloggio. Sono i volontari che si autofinanziano. I soldi guadagnati vengono usati esclusivamente per i progetti. Quest’anno abbiamo utilizzato una parte dei ricavi per aiutare un ragazzo malato di fibromatosi alla gamba, (un problema grave per cui, purtroppo, verrà amputato) e un adulto con cancro alla testa. Le nostre risorse sono andate a loro. Portiamo soldi, ma anche le energie umane e la nostra solidarietà.

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I progetti che facciamo li facciamo in Tanzania, raccogliamo i fondi e andiamo lì a spenderli. Tranne uno, tra l’altro recente: abbiamo conosciuto un bambino, Iddi, di 6 anni, con un linfangioma al volto: la parte destra era piena di liquido che andava in giro per tutta la faccia. Lo abbiamo aiutato con tutte le cure mediche possibili, ma nella zona non c’erano specialisti sufficientemente bravi e  solo in Europa si sarebbe salvato. Tramite la Regione Toscana e l’azienda ospedaliera, ci siamo messi in moto con i documenti per portarlo in Italia. È venuto a Siena, seguito dall’equipe del dottor Venturi e dal 2006 al 2014 ha subito 25 interventi a Siena e uno grande a Lucca. È in Italia da dieci anni, ormai vive qua ma ogni anno facciamo in modo di  portarlo in Tanzania dai suoi fratelli (ne ha 11 fratelli). L’ho preso in casa con me, ma devo tutto a mia moglie. È stata lei ha volerlo prendere con noi. Mia moglie è la Nancy che ha avviato il progetto iniziando con la raccolta fondi per il microscopio. La sua grande forza e l’amore per questa terra hanno permesso tutto questo. È a lei e a Zoe che và la nostra ammirazione. Iddi è un ragazzo meraviglioso, un vero studioso e si è ambientato benissimo. I dottori sono soddisfatti del risultato, c’è stato più del 95% di risoluzione della malattia. Starà con noi fino ai 18 anni. Poi si vedrà.

Ti sei innamorato a tutto tondo della Tanzania quindi…

Sono stato letteralmente folgorato. È un’esperienza che non si può spiegare, va vissuta. Io e Nancy ci siamo sposati  in Tanzania. Un matrimonio felice, anche se era la prima volta che si vedeva un unione tra un bianco e un tanzanese. Abbiamo fatto la cerimonia secondo la tradizione della tribù locale e dopo la celebrazione abbiamo camminato per 4 chilometri dalla chiesa a casa, con il villaggio che ci seguiva cantando e ballando. Quello che è sorprendente è la forza d’animo, lo spirito di questa gente. Nemmeno la miseria riuscirà mai a portargli via il sorriso.

Come ha risposto la città alle vostre iniziative?

Ci sono tante persone che ci aiutano a Siena, e ci hanno aiutato sin da subito.  Tra i tanti, in particolare, il Laboratorio, la scuola elementare Federigo Tozzi e la Pubblica Assistenza. Con loro facciamo cene, eventi, incontri. Prendiamo le fatture africane, come stoffe, ebano, gioielli e lo portiamo qua per fare i  mercatini. La città ha risposto davvero bene e non possiamo che esserne soddisfatti.

Quali sono le prospettive per il 2017?

La casa famiglia continua, mentre i malati sono una cosa imprevedibile che hanno priorità assoluta su tutto. Se viene qualcuno che ci chiede aiuto all’ultimo momento, noi ci sentiamo in dovere di aiutare queste persone, secondo la gravità della malattia. E poi abbiamo in progetto di costruire altri due pozzi.

Ci racconta un aneddoto simpatico o significativo della vostra attività?

Vi racconto la nostra ultima “fatica”. Tra i vari progetti abbiamo acquistato un trattore in Tanzania. Uno sforzo enorme, non abbiamo grosse somme di denaro e ci sono voluti almeno 3 anni per raccogliere i soldi. Ma era necessario e dire “ce l’abbiamo fatta” è stata la più grande soddisfazione per il nostro gruppo.

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I nostri volontari aiutano le famiglie a livello medico, ma anche per portare cibo e beni di prima necessità. Il nostro aiutante, che lavora i campi di riso, aveva bisogno di un trattore, per incrementare la produzione. Ne abbiamo parlato con i soci, abbiamo fatto delle cene a tema. Ne è uscita fuori una canzone, sulle note di un famoso pezzo di Ligabue, che abbiamo intitolato “Metti in circolo un trattore”, con l’intento di spiegare a cosa sarebbe servito questo trattore, con aratro. Anche quello, ovviamente, acquistato in Tanzania. Cose che per noi, in Italia, sono banali e di uso quotidiano, in quelle terre vengono apprezzate come un regalo divino. Ci vorranno anni per cambiare le cose, forse non riusciremo mai a garantire a tutti una vita migliore, siamo solo una piccola associazione che cerca di fare tutto quello che può. Ma, per quel che possiamo fare, sicuramente non smetteremo di dare forza e speranza a questa gente.

Ci sono esperienze che non è possibile raccontare, possono essere comprese solo vivendole. Ma per farvi un’idea, potete leggere le testimonianze dei volontari e di chi ha avuto il coraggio di partire. Non dobbiamo mai smettere di sperare che la vita possa avere un seguito migliore.

http://www.grupporafiki.org/viaggio.htm

Michela Piccini